di Chiara Vannoni *

Con la sentenza n. 125 depositata il 7 aprile 2022, la Corte Costituzionale si è nuovamente pronunciata sulla Legge Fornero e, in particolare, comma 7 dell’art. 18 L. 300/1970, ai sensi del quale poteva accedere alla tutela reintegratoria il lavoratore che, licenziato per motivo economico, avesse dato prova non solo della insussistenza del fatto, ma dell’ulteriore circostanza che questa inesistenza fosse manifesta.

La sentenza della Consulta arriva all’approssimarsi del decimo anniversario della Legge Fornero che, come ricordiamo, è stato un importante, avversato e controverso intervento legislativo; questo è stato tacciato di avere per primo smantellato il sistema di tutele per le ipotesi di licenziamento, introducendo rimedi graduati a seconda della “gravità” della violazione di norme da parte del datore di lavoro. La sentenza che andiamo brevemente a commentare è in realtà la seconda ad intervenire sul licenziamento economico, sempre censurando l’illegittimità costituzionale di un testo legislativo poco chiaro e di difficile interpretazione.

A monte dell’ambiguità della formulazione normativa, quello che aveva immediatamente colpito gli interpreti era l’estremo assottigliarsi delle ipotesi di reintegrazione del lavoratore, quindi della effettiva tutela reale che è stata l’architrave del diritto del lavoro per oltre quarant’anni ed è via via divenuta, prima con la Legge Fornero e, maggiormente poi con il Jobs Act, residuale ed eccezionale.

In estrema sintesi, la Corte Costituzionale si era già pronunciata, sempre dichiarandone l’illegittimità, sul medesimo comma 7 stabilendo che, una volta accertata la manifesta infondatezza del fatto posto alla base del licenziamento per motivo oggettivo (relativo cioè a ragioni economiche ed organizzative dell’impresa), il giudice deve necessariamente, senza la discrezionalità invece insita nella formulazione della norma (ai sensi del quale il giudice poteva) disporre la reintegrazione del lavoratore.

Anche questo blog aveva dato ampio spazio a tale intervento, che stabiliva come, di fronte all’accertamento della insussistenza (manifesta, in quel caso) del fatto, il Giudice non avesse altra scelta che non la reintegrazione.

In seguito, sempre il Tribunale di Ravenna ha nuovamente posto alla Corte Costituzionale dubbi, effettivamente fondati, di legittimità costituzionale rispetto al requisito della manifesta insussistenza del fatto: in che senso doveva essere interpretato? Cosa significa manifestamente infondato, quando l’interpretazione dei Giudici di un fatto tende a verificare se questo si è verificato o meno?

Ci possono essere fatti più o meno infondati, e quindi più o meno meritevoli di sanzioni? E soprattutto, quanto conta in questo caso la soggettività del magistrato che si trova di fronte al caso concreto e non solo deve decidere sul fatto, ma anche sulla sua “manifesta infondatezza”?

Ebbene, la Consulta ha quindi affermato che “il requisito del carattere manifesto, in quanto riferito all’insussistenza del fatto è indeterminato” e che, prestandosi a incertezze applicative, può condurre a soluzioni difformi, violando quindi il principio generale di non discriminazione posto dall’art. 3 della Costituzione. Pertanto, dice la Corte Costituzionale – così come da anni sosteniamo – un fatto o sussiste, o non sussiste: di conseguenza, se il fatto non sussiste, non vi è ragione per non garantire al lavoratore la medesima tutela reintegratoria.

Si ampliano così le maglie della tutela cosiddetta reale, seppure nella sua forma attenuata, per i lavoratori – quei pochi – che ancora “godono” dell’art. 18.

Viene quindi spontaneo e naturale interrogarsi rispetto all’impatto che questi interventi giurisprudenziali possono, o potranno avere, sulla diversa disciplina del contratto a tutele crescenti, che ha confinato la reintegrazione a casi rarissimi, escludendola completamente per le ipotesi di licenziamento economico, rispetto al quale ora è prevista solo una indennità.

Anche rispetto a tale previsione, la Corte Costituzionale ha avuto modo di dichiarare l’illegittimità del solo criterio dell’anzianità aziendale per la determinazione dell’indennità risarcitoria: criterio che non solo svuotava di qualsiasi compito interpretativo il Giudice, ma sviliva completamente l’effettivo vissuto del particolare lavoratore rispetto al particolare licenziamento.

Il Decreto Dignità ha di certo avuto il merito di avere ampliato la forbice risarcitoria, mantenendo però immutato il contesto legislativo di radicale esclusione della reintegrazione per i licenziamenti economici: ci si continua ad interrogare, però, sull’effettiva rispondenza di un tale impianto normativo rispetto al principio, pur sempre richiamato nelle sue pronunce dalla Consulta, del diritto del lavoratore a non essere ingiustamente licenziato.

Se è vero, come è vero, che spetta al legislatore (tecnico – nel caso della Legge Fornero – o politico, nel caso del Jobs Act) la determinazione dell’impianto normativo, è anche vero che la diversità dei rimedi previsti (reintegrazione solo in rarissimi casi, indennità per tutti gli altri) devono pur sempre assicurare una tutela adeguata; si contesta quindi e ancora, la scelta di ritenere – o far ritenere – che tutela adeguata sia la sola tutela economica, in un contesto in cui il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, che pure dovrebbe essere la regola sulla carta, è di fatto l’eccezione nella pratica.

Svuotato di tutele effettive, compresso da contratti a tempo determinato che non necessitano più di causali, non deve stupire se gli interventi giurisprudenziali della Corte Costituzionale, quando richiesti, colpiscono e smantellano norme che vanno nella direzione opposta a quella della tutela del lavoro, del lavoratore e della sua dignità.

* Giuslavorista per vocazione, vivo ed esercito la professione forense a Milano e mi occupo in particolare delle tematiche delle pari opportunità, discriminazioni di genere, molestie sul posto di lavoro. Sono stata Consigliera di Parità della Città Metropolitana di Milano.

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