Non ci fu “inganno” e tantomeno fu reato la trasformazione in corso d’opera di una fornitura in donazione. Il nuovo contratto – benché in qualche modo indotto dalla necessità di evitare una brutta figura e magari una dura campagna stampa – fu operato “in chiaro”, portato “a conoscenza delle parti”, “non simulato ma espressamente dichiarato”. È il ragionamento che ha portato la giudice per le indagini preliminari di Milano, Chiara Valori, a prosciogliere tutti gli imputati del procedimento scaturito dal caso di camici: il brutto pasticcio – per la procura di Milano una frode – dell’affidamento da parte della Regione Lombardia di una fornitura, poi trasformata in donazione a maggio del 2020, da circa mezzo milione di euro di 75mila camici e altri dispositivi di protezione a Dama, la società di Andrea Dini, cognato del presidente Attilio Fontana. Per i cinque imputati la giudice ha emesso una sentenza di non luogo a procedere perché il fatto non sussiste. Oltre che per Fontana e Dini i pm di Milano Paolo Filippini e Carlo Scalas avevano chiesto il processo per Filippo Bongiovanni e Carmen Schweigl, rispettivamente ex dg e dirigente di Aria, centrale acquisti regionale e per Pier Attilio Superti, vicesegretario generale del Pirellone.
Nelle 32 pagine di motivazioni viene spiegato che “pare difettare in toto la dissimulazione del supposto inadempimento contrattuale”, che contestava la Procura di Milano perché, quando quella fornitura dell’aprile 2020 affidata a Dama, società di Dini (di cui la moglie del presidente lombardo deteneva il 10%), da 75mila camici e altri 7mila dpi per 513mila euro, si era trasformata in donazione non erano stati consegnati 25mila camici. È “del tutto sfornita di riscontro la tesi secondo cui la fornitura sia stata” dall’inizio “‘vestita da donazione allo scopo di celare il conflitto di interesse tra la proprietà di Dama e il Presidente Fontana”. Dal 19-20 maggio 2020, poi, “lo scenario è mutato, allo scopo di risolvere con modalità che evidentemente sono apparse agli attori ‘convenienti’ la situazione di grave imbarazzo che era scaturita dalle prime avvisaglie dell’inchiesta giornalistica” di Report “in corso, che rischiava di deflagrare improvvisamente”. All’inviato della trasmissione Dini aveva dichiarato che si trattava di “una donazione, siamo un’azienda lombarda dobbiamo fare il nostro dovere” disse.
La fornitura – per cui era previsto un pagamento a 60 giorni – fu trasformata in donazione per questo motivo, ma “non risponde al vero”, come sosteneva l’accusa, “che si sia cercato a posteriori di considerare la fornitura come a titolo gratuito fin dall’origine“. E anzi tutto, secondo il giudice, fu reso “palese” tra le parti: da un lato Dama ha sospeso le consegne, dopo aver fornito 50mila camici, e dall’altro Aria “ha revocato i mandati di pagamento“. Non si può dire, quindi, conclude il gup, che “il nuovo accordo costituisse un mero contratto simulato, teso ad occultare la reale volontà dei contraenti”. La giudice ricorda che “se le parti hanno voluto concludere un contratto diverso da quello apparente, ha effetto tra esse il contratto dissimulato, mentre nel caso che ci occupa è stata data effettiva esecuzione all’accordo reso palese, così confermando che questo solo corrispondeva alla reale volontà delle parti”. Ma non solo “… è anche vero che l’assenza di danno per la pubblica amministrazione – ed anzi l’esistenza di un vero e proprio vantaggio – può ben essere stata considerata dai funzionari di Aria, nel momento in cui hanno prestato il proprio assenso alla trasformazione del contratto, pur acconsentendo alla riduzione della fornitura”. Quando era emerso il legame tra Dini e Fontana, “il potenziale conflitto di interessi” ed era “stata valutata l’obiettiva inopportunità” si era deciso di togliere dall’imbarazzo il governatore e procedere come poi è avvenuto.
C’è poi il capitolo dei camici non più forniti: “non vi è dubbio che i 25mila” pezzi “non consegnati costituissero beni necessari al servizio sanitario regionale, ancorché, alla data del 20 maggio 2020, il bisogno non fosse più così impellente come nelle prime settimane dell’emergenza” per la pandemia di Covid. E così la riflessione della giudice si sofferma anche sul fatto che di conseguenza non si è configurato neanche il reato di inadempimento di contratti di pubbliche forniture. Che la “ragione ultima fosse in realtà diversa dalla munificenza”, ossia che si era creata una situazione di “imbarazzo” per Fontana, “è questione che attiene ai motivi del contratto e non incide sulla causa, che rimane quella di liberalità per Dama e di evidente risparmio per Aria“. Una liberalità in qualche modo indotta come come si capisce dai messaggi in Dini e un collaboratore di Dama per capire se fosse possibile recuperare gli ultimi 6500 camici già consegnati, una ipotesi considerata “una follia”. “Ovviamente tutti dico tutti sono nella lista dei fornitori di camici, Armani, Herno, Moncler. Gli unici coglioni siamo noi“, “Ma lo mandi a cagare e fatturiamo lo stesso” la replica, ma l’imprenditore risponde: “Non posso”.
“Sono ampiamente soddisfatto dalla sentenza, da cui traspare un’intensa attività di studio. Il provvedimento – commenta l’avvocato Giuseppe Iannaccone, legale di Dini -. è ben motivato e ricostruisce scrupolosamente i fatti, riconoscendo la piena trasparenza dell’operato di Andrea Dini e del suo atto di generosità nei confronti della Regione”. “Siamo felici che il giudice abbia ripreso tutte le argomentazioni difensive, escludendo la fattispecie di reato contestata ed ogni altra ipotizzabile” dichiarano i legali di Fontana, Jacopo Pensa e Federico Papa.