Dopo l’autonomia, i dipendenti. Dopo i dipendenti, una società. Date a Giovanni Malagò un dito, e proverà a prendersi tutto il braccio. L’ultima richiesta del numero uno del Comitato olimpico è una nuova società strumentale per gestire al meglio le attività del Coni. Malagò la chiede da mesi, il governo continua a dire no per evitare sprechi e duplicazioni, ma lui non si arrende.
Si tratterebbe dell’ultimo passo per smontare la riforma dello sport voluta dal governo gialloverde e restaurare il pieno potere del Coni. Il cuore della rivoluzione varata all’epoca dall’ex sottosegretario Giancarlo Giorgetti, oltre a togliere al Comitato olimpico i finanziamenti delle Federazioni, era stato trasformare la fu “Coni Servizi” in “Sport e salute”, trasferendola a palazzo Chigi, proprio per limitare le attività del Coni. Lega e Movimento 5 stelle volevano ridimensionare così l’impero di Malagò. Il Coni ha tenuto botta, e grazie agli appoggi politici e al sostegno del Cio (il Comitato internazionale) ha recuperato terreno. È riuscito a farsi restituire i dipendenti (anche più di quelli previsti: dovevano essere 100, alla fine sono diventati più di 160). Quindi è toccato agli immobili, come lo splendido centro “Giulio Onesti” dell’Acqua Acetosa o il conteso Istituto di medicina dello sport. Tutto grazie al famoso “Decreto Salva-Coni”, ottenuto dal governo Conte in caduta, agitando lo spauracchio di una inverosimile esclusione dell’Italia dai Giochi.
Malagò però non si accontenta. Vorrebbe anche una società di scopo, una piccola Spa o Srl (poco importa la forma giuridica), quello che era insomma “Coni servizi”. Ufficialmente per gestire personale e patrimonio, ma serve soprattutto perché il Coni, da ente pubblico, ha le mani legate da codice degli appalti e fisco su tutta una serie di attività: diverso sarebbe invece con una società di natura privatistica. Da mesi è in atto un tira e molla col governo: il Coni crea la propria società, palazzo Chigi la rispedisce al mittente. Anche perché il Parlamento si è espresso chiaramente sulla questione, approvando lo scorso dicembre un ordine del giorno che impegna il governo ad assicurare l’autonomia del Coni “escludendo il ricorso a società controllate”. La saga però continua e l’ultimo capitolo si svolge proprio in questi giorni. Di fronte all’ennesima delibera approvata al Foro Italico, il dipartimento Sport ha risposto ponendo paletti molto stringenti: uno studio di fattibilità per dimostrare la mancanza di oneri in più per lo Stato (nello statuto approvato dal Coni si parla anche di “compensi” per gli amministratori); inserire una forma di vigilanza da parte del governo (ad esempio sulla nomina degli amministratori e dei revisori); limitare le attività in maniera stringente al personale e agli immobili.
In punta di diritto, peraltro, un ente pubblico come il Coni ha la facoltà di formare una società di scopo senza nemmeno dover chiedere il permesso. Di questo sembrano ormai consapevoli anche a palazzo Chigi. Il governo però vuole evitare che con la scusa della gestione del patrimonio, il Comitato olimpico si allarghi poi a tutta una serie di altre iniziative (la parola chiave è “marketing”). Creando così un nuovo “carrozzone” parastatale, che si andrebbe ad aggiungere a Coni, Sport e Salute e Dipartimento sport, in una governance sovraffollata di enti: già ora nel mondo dello sport non si capisce chi deve fare cosa, figuriamoci con un quarto soggetto in causa. Allora sì che la riforma avrebbe fallito.