“Senza di me non ci sarebbe stato alcun Elvis Presley. Io ho creato Elvis Presley, ma io non ho ucciso Elvis Presley”. Per un territorio noto e scivoloso come la parabola mitica del King of rock’n roll, non si può accusare di spoiler un incipit che già contiene tutto il senso di un film. Perché nello statement affidato al narratore Colonel Parker (Tom Hanks) vi è la sintesi di Elvis di Baz Luhrmann, il film più lungamente annunciato, atteso e riverito alla 75ma edizione del Festival di Cannes, posto giustamente fuori concorso e dal 22 giugno in tutte le sale del mondo, incluse le italiane per la distribuzione di Warner Bros.
È lui, il diabolico, subdolo, egocentrico manager di Presley a fornire a Luhrmann la chiave d’accesso nell’universo epico e tragico della più grande rockstar di tutti i tempi: attraverso una seduzione condizionante durata una vita, il cineasta australiano mostra come Parker sia riuscito a vampirizzare l’energie vulcaniche di Elvis mutandole in fatali fragilità senza mai ammettere le proprie responsabilità. Ed è così che le 2 ore e 40 del biopic procedono: Elvis (interpretato dall’ottimo Austin Butler) è inquadrato come il giovane talento naturale di provincia degli anni ’50 immediatamente riconosciuto dagli occhi di lince di Col Parker che ne fa una sua proprietà, “my boy” lo chiama incessantemente fino alla di lui morte, chiudendolo in quella gabbia dorata dell’International Hotel di Las Vegas che sancirà la sua condanna a morte.
Se l’idea di un racconto concentrato classicamente sull’opposizione tra eroe e il suo antagonista funziona dall’origine della teoria narrativa, tale scelta sarebbe stata esplosiva se Luhrmann l’avesse adottata radicalmente nella portata della sua ambigua seduzione, opponendo nettamente protagonista e antagonista, il Bene vs il Male, scespirianamente parlando. Perché sono proprio quelli i momenti più intriganti di un’opera che, alla fine, è un’apologia di Presley, creatura straordinaria nonostante se stesso, destinato a qualcosa che lui riuscì a comprendere solo quando tentò di staccarsi dal suo agente vampiro, probabilmente così geloso di lui perché incapace di raggiungere il suo genio. “Qualcosa che assomiglia molto al rapporto fra Mozart e Salieri” ha dichiara il regista che la tragedia del Bardo ben conosce come dimostra il suo sorprendente Romeo + Juliet.
Purtroppo Lurhmann – che non è Milos Forman – ha appena sfiorato la tela narrativa così splendidamente offertagli dall’epica tragica, senza affondare il coltello nella piaga ancora sanguinante di una leggenda dal talento assoluto, che tanto avrebbe potuto offrire più alla musica che allo show business, merchandising ante litteram permettendo (anche quello fu una trovata del satanico Parker). Eppure il cineasta di Moulin Rouge sa e “sente” che Elvis è un cuore selvaggio, un’anima ribelle, un figlio del suo tempo che a suo modo idolatrava James Dean, capace di connettersi alla Storia tragica dei grandi assassinii americani del tempo (Martin Luther King, Bob Kennedy..) e di comporre una delle sue più struggenti canzoni sul dolore di un popolo. Sa – e lo fa vedere – che è sempre stato “posseduto” dallo spirito black del profondo sud con i suo ritmi tribali, il blues radicale, il gospel estremo che poi avrebbe mescolato nel suo inimitabile rock’n roll. “I wanna be the real Elvis” (voglio essere il vero Elvis) esclama a metà dell’opera come se intuisse che la sua immagine dilagante non lo rappresentava fino in fondo… e questo è un dato che pertiene alla madre di tutti i mali del capitalismo sfrenato: l’immagine è sempre più distante dall’essenza ma, purtroppo, su di essa vince sempre. Specie nella grande narrazione americana, per definizione.
Con un prologo di almeno 15’ scintillanti, a ritmo forsennato e che contiene già tutta l’epica della superstar/superhero, e un prosieguo buono ma meno focalizzato su quanto avrebbe potuto (invece) approfondire come si è detto, Elvis resta comunque un buon prodotto, dichiaratamente pensato da Baz Luhrmann per “essere visto nelle sale cinematografiche per salvare il cinema sul grande schermo”. Da segnalare la presenza dei Måneskin – applauditissimi sulla Montée des Marshes – nella colonna sonora del film con il brano If I Can Dream.