La sociologa ed esperta di welfare Chiara Saraceno. Il direttore Lavoro dell’Ocse Stefano Scarpetta. L’ex presidente Inps Tito Boeri e l’ex commissario alla spending review Roberto Perotti. Sono gli ultimi in ordine di tempo ad aver chiesto l’introduzione anche in Italia di un salario minimo legale per tutelare il potere di acquisto dei lavoratori (compresi quelli non coperti dai contratti collettivi) e mettere un freno al dumping salariale. Secondo un sondaggio Swg, la misura vedrebbe favorevole l’86% degli italiani. Il ministro del Lavoro Andrea Orlando finora ha tentennato sperando in un accordo tra le parti sociali, che continua ad essere ben lontano. Risultato: non si è fatto un passo e la fine della legislatura è ormai vicina. A sparigliare le carte sta per arrivare, però, la direttiva europea in materia, destinata salvo sorprese a ricevere l’ok definitivo il 6 giugno. Nel contrasto al lavoro povero potrebbe fare la differenza non perché ci imponga di fissare un compenso minimo – non lo fa – ma perché obbligherà il governo a varare almeno una legge sulla rappresentanza. Pena, in prospettiva, la procedura di infrazione.
Perché la legge sulla rappresentanza contrasta il lavoro povero – Parlare di norme mirate a “pesare” quanto sono effettivamente rappresentativi i vari sindacati e le associazioni datoriali ha meno appeal rispetto al concetto di un trattamento economico sotto il quale nessuno può scendere. Ma secondo gli esperti i due interventi devono procedere insieme e il primo non solo è il più urgente, ma avrebbe subito a vantaggio dei tanti lavoratori a cui vengono applicati contratti pirata con stipendi molto più bassi rispetto a quelli di chi gode del contratto collettivo “principale”. La proliferazione di questi accordi firmati da sigle minori, fittizie o “di comodo” è stata infatti consentita proprio dal vuoto legislativo sulla rappresentanza. Un lavoratore pagato meno di quanto prevede il contratto di riferimento per il suo settore può sulla carta far causa e chiedere l’adeguamento della cifra, visto che una legge del 1989 sancisce che la retribuzione “non può essere inferiore all’importo (…) stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale”. Ma qui si torna al punto di partenza: ufficialmente, quali siano le organizzazioni più rappresentative in Italia non si sa. L’articolo 39 della Costituzione, che prevedeva la registrazione dei sindacati in cambio della facoltà di stipulare contratti collettivi validi per tutti gli appartenenti alla categoria, è inattuato. Va ancora peggio sul fronte datoriale: accanto a Confindustria ci sono decine di associazioni di pmi, di artigiani, di imprese di singoli settori che in questo modo sono libere di affrancarsi dal ccnl principale (Fiat insegna). Negli anni vari testi unici, accordi quadro e da ultimo il “Patto della fabbrica” del 2018 hanno promesso svolte, mai arrivate.
Che cosa prevede la direttiva europea – Cosa cambia con la direttiva europea sul salario minimo? Il testo lascia agli Stati membri la libertà di decidere se garantire stipendi adeguati adottando un salario minimo legale (già in vigore in 21 Paesi su 27) o invece attraverso un’elevata copertura della contrattazione collettiva. Per essere in regola basta che almeno il 70% dei lavoratori sia coperto. “Ma noi al momento non siamo in grado di calcolare in maniera puntuale la percentuale di copertura dei ccnl, né di verificare se le imprese che dichiarano di applicare un contratto pagano minimi contributivi allineati”, spiega Claudio Lucifora, professore di Economia del lavoro alla Cattolica di Milano e consigliere del Cnel, che tiene l’archivio di tutti i contratti vigenti in Italia (oggi ben 985). Risultato: “Rischiamo di essere messi in mora da Bruxelles“, che chiederà di quantificare quella quota con precisione. Non è un caso se mercoledì Orlando ha fatto sapere che “una qualche legge, se non sul salario minimo sul fronte della rappresentanza, arriverà”.
Lucifora (Cnel): “Il governo intervenga entro pochi mesi” – “Il governo dovrebbe dare alle parti sociali qualche mese per trovare l’intesa. E, se non ci riescono, varare un intervento legislativo leggero che definisca alcuni parametri per misurare la rappresentanza dei sindacati e delle associazioni datoriali“, continua Lucifora. “Una volta misurata la rappresentatività, le imprese potranno continuare ad applicare contratti diversi da quello principale su una serie di aspetti ma non sui minimi contributivi e dunque salariali”. A meno che il governo non faccia un passo ulteriore, estendendo “erga omnes” la validità del contratto leader. In ogni caso, una norma del genere offrirebbe finalmente un punto fermo all’Ispettorato del lavoro, ai giudici (in caso di ricorsi avranno un termine di paragone chiaro) e agli enti pubblici che oggi, quando devono verificare la corretta applicazione dei ccnl nell’esecuzione di un appalto o nella concessione di alcuni contributi alle imprese, procedono alla cieca.
Raitano (Sapienza): “Sul minimo orario recuperare il ddl Catalfo” – E il salario minimo legale? “Non è la panacea ma il governo dovrebbe farlo, dopo la legge sulla rappresentanza che è fondamentale per rafforzare la contrattazione“, spiega Michele Raitano, ordinario di Politica economia alla Sapienza che ha fatto parte del gruppo di lavoro sulla povertà lavorativa nominato dallo stesso Orlando. “Fissare un minimo manderebbe un messaggio chiaro sul problema del lavoro povero. Che dipende però sia dai bassi salari orari sia dall’enorme quantità di part-time involontario, arrivato ormai a riguardare il 30% dei dipendenti privati, e dalle tante forme di lavoro atipico”. “Penso a un intervento che recuperi il ddl Catalfo (ora fermo in commissione Lavoro al Senato, ndr), che tiene conto anche delle esigenze dei sindacati”. Quel testo infatti non si limita a fissare una soglia minima di 9 euro lordi – che è ritenuta da molti troppo alta per il contesto italiano ma verrebbe poi aggiornata da una commissione di esperti e parti sociali – ma propone come benchmark per ogni settore il trattamento minimo orario previsto dal contratto collettivo leader nel comparto.
“Tutto però deve essere accompagnato da un enorme aumento della capacità di controllo del rispetto dei contratti stessi e dei loro minimi”, continua Raitano toccando uno dei tanti tasti dolenti del sistema. “Tra le proposte del gruppo di lavoro c’era non a caso il rafforzamento della vigilanza documentale, quella basata sull’incrocio dei dati a disposizione dell’Inps, per identificare in maniera automatica i casi di presunta irregolarità da sottoporre poi a controlli. Questo permetterebbe anche di individuare subito l’eventuale riduzione delle ore lavorate “ufficiali” a fronte dell’introduzione un salario minimo”. Spia, ovviamente, dello spostamento di una parte dell’orario reale nel perimetro del nero. Se mai si farà la legge, bisognerà esser pronti a smascherare l’inganno.