La guerra sta modificando drasticamente schieramenti politici, appartenenze ideali, convergenze di orientamenti e di opinioni consolidate, modi di essere e di porsi nel dibattito pubblico e purtroppo, spesso, anche frequentazioni e sintonie private semplicemente perché impone un drastico ed inevitabile riordino delle priorità. Ad essere modificati e riordinati, se non addirittura scomposti e ricomposti, non sono solo gli equilibri geopolitici ma anche quelli interpersonali, tanto più nella dimensione della comunicazione politica e culturale.
Con questa premessa, probabilmente scontata ma che considero comunque non superflua, vorrei entrare nel “Dibattito senza filtri su Mosca, Kiev e noi” che Il Fatto ha inaugurato sabato 14 maggio a seguito del deciso passo indietro di un collaboratore storico e autorevole come Furio Colombo basato sinteticamente su due motivazioni: l’assoluta contrarietà sull’invio di armi all’Ucraina in forza di un asserito divieto costituzionale ex art. 11 Cost.; la netta volontà di prendere le distanze dal crescente spazio e “dall’over-celebrazione” riservata al professor Alessandro Orsini platealmente confermata nell’evento organizzato per lui dal Fatto Quotidiano.
Marco Travaglio, alla constatazione di Furio Colombo riguardo la linea editoriale sulla guerra in Ucraina “è un Fatto Quotidiano che non conosco”, ha replicato: “il Fatto è il giornale di Colombo e attendiamo i suoi prossimi commenti come in questi 13 anni. Spero che quello di Furio sia solo un momento di smarrimento .” Con la contestuale rivendicazione della “diversità delle opinioni di collaboratori” e della “libertà di ognuno di dire ciò che ritiene”.
In una successiva intervista rilasciata a MicroMega, Furio Colombo ha voluto focalizzare l’origine della impossibilità di condividere un percorso comune con la testata di cui è cofondatore a causa di ciò che definisce la costruzione di un mondo alla rovescia: “Si sta invocando la resa per far cessare questa carneficina che sarebbe provocata dalla ‘inutile resistenza’ di Zelensky. Non siamo più nell’ambito delle opinioni, per quanto discutibili, ma nell’assunto al di fuori di ogni possibile verità per cui si identifica la pace con la resa dell’Ucraina”.
E quando Colombo dice, al di là della rivendicazione di una pretesa censoria, che Il Fatto Quotidiano è ormai diventato anche il giornale di Orsini, un collaboratore un po’ speciale e più centrale di altri, magari solo perché si è conquistato in un paio di mesi lo status di star mediatica, registra una realtà a cui attribuisce una valenza decisamente negativa: “l’arrivo di Orsini segna una mutazione, una rottura di continuità, un’epoca nuova, e quest’epoca è brutta perché è caratterizzata dall’alterazione della verità, da ‘verità alternative’ come lo staff di Trump ha ribattezzato le menzogne…”.
Quasi sicuramente questa valutazione non è condivisa dalla maggior parte dei lettori e dalla quasi totalità dei sostenitori del Fatto che apprezzano il pacifismo disinvolto, illogico, provocatorio, spesso mistificatorio del professor Orsini e corrispettivamente diffidano dei principi rigorosamente liberaldemocratici come del curriculum di Furio Colombo, che fa fede del suo anti-putinismo quanto del suo anti-berlusconismo. Vorrei però anche sottolineare che la mia comprensione per “il disagio” espresso da Colombo non intende in alcun modo giustificare né sostenere la sua richiesta ultimativa “o io o lui” come collaboratori del Fatto.
Non so se Alessandro Orsini possa essere definito “il guerriero fascio-putiniano” come fa Critica Liberale che annovera nel suo attuale comitato di presidenza tra gli altri Gustavo Zagrebelsky e nel recente passato Norberto Bobbio, Stefano Rodotà e Paolo Sylos Labini. Ma l’amenità sul “nonno dall’infanzia felice durante il fascismo” così tanto per celebrare la propensione dei regimi dittatoriali per l’infanzia, in primis ovviamente quello particolarmente ridente di Putin, è solo una perla del vastissimo repertorio che include “Zelensky, un pericolo per la pace va abbandonato“; “Rompere con la Ue, riconoscere le colpe dell’Europa e quelle di Putin”; “Putin pericoloso quanto Biden traditore dell’Europa, la sta accoltellando alle spalle”; “Ogni volta che sento che un paese vuole entrare nella Nato, soprattutto se è vicino ai confini della Russia, io piango”; “Se la Russia dovesse attaccare un paese della Nato l’Italia dovrebbe dichiararsi neutrale ed uscire dall’alleanza”. D’altronde da Giletti si è dichiarato “un combattente che ha sconfitto tutti i suoi nemici” anche se, nonostante l’onnipresenza in tutti i talk che mettono al primo posto le impennate dell’audience per le sparate in diretta con conseguente amplificazione e putiferio sul web, si considera, analogamente alla “cobelligerante” Donatella Di Cesare, oggetto di discriminazione e censure.
A lui non è stata rinnovata la direzione dell’Osservatorio sulla sicurezza internazionale da parte della Luiss; a lei sono state rivolte critiche che definisce “denigranti ed ostili” da parte di Aldo Grasso sul Corriere per aver definito “annessione alla Nato” la richiesta di adesione da parte di Finlandia e Svezia. Ma la teorica del Nuovo Maccartismo contro chi non si allinea al “bellicismo imperante”, in omaggio al ribaltamento metodico dei fatti, ritorce l’accusa di provocazione nei confronti delle democrazie che chiedono di entrare, peraltro con il sostegno della stragrande maggioranza della popolazione. E nella vibrante denuncia dell’Aria da squadrismo “democratico” contro chi dissente ci aggiunge pure il carico, ulteriormente imbarazzante, della discriminazione di genere, “in quanto donna in un Paese in cui lo spazio pubblico è quasi sempre ovunque occupato da maschi che, per di più, in questi ultimi tempi si sono messi un elmetto accecante”. Con tanto di avviso bellicoso: “non mi lascerò comunque intimidire né da squadrismi giornalistici né da subdoli messaggi politici”. A riconferma di quella propensione a “gridare, sgridare, attaccare e condannare con furore del pacifista”, con particolare riferimento al “pacifista laico”, segnalata nel suo ultimo intervento sul Fatto del 1° maggio da Furio Colombo.
Ebbene sì, da quando è cominciata la collaborazione con Il Fatto di questi logorroici esponenti del pacifismo nostrano le mie perplessità iniziali si sono ulteriormente acuite e ho condiviso sempre più “lo smarrimento” di Furio Colombo che definirei più propriamente sconcerto e persino preoccupazione per “una mutazione” che spesso va oltre le mie capacità di comprensione. I miei punti di riferimento sono sempre stati Marco Travaglio, a cui devo la possibilità di potermi esprimere nel mio blog, e Peter Gomez che da direttore del Fatto online mi ha sempre assicurato attenzione e visibilità. Ma soprattutto a loro sono legata da una stima personale e più ancora da un’amicizia ultraventennale che non può essere scalfita da una profonda difformità di vedute che solo pochi mesi fa non avrei nemmeno potuto immaginare.
Furio Colombo non l’ho mai conosciuto personalmente, l’ho sempre stimato per i suoi meriti giornalistici e per aver diretto coraggiosamente l’Unità nell’era degli editti berlusconiani e della censura, quella vera, ma non l’ho mai seguito con continuità e non condivido nemmeno le sue posizioni filo-israeliane.
Faccio queste precisazioni anche in riferimento ai numerosi commenti che ha suscitato il mio ultimo blog per rispondere a chi ha espresso condivisione per aver trovato “cose corrette ed oneste”, “lucidità e chiarezza” riguardo la critica dell’equidistanza tra Putin e Zelensky, e “il pacifismo di maniera” che, riporto testualmente, “fatica a trovare sul Fatto Quotidiano“. Ma anche a chi mi ha criticato aspramente ritenendomi “sponsor di morte per procura”, penna “con l’elmetto”, “maestra di propaganda” ecc., e ai tanti che si sono autoproclamati convintamente e fieramente putiniani. In particolare, ad uno che mi ha definita “indecente per faziosità e disprezzo del pacifismo” e si è domandato “che cosa aspetta l’esimia autrice a seguire Furio Colombo e togliere il disturbo”, vorrei semplicemente dire che pur consapevole di essere una voce minoritaria e di non sentirmi più “a casa”, non voglio (ancora) arrendermi all’idea che i lettori del Fatto desiderino ascoltare solo Orsini, Di Cesare & co.