Mykyta Gorban ha 31 anni e vive in un villaggio vicino a Kiev. La sua storia ha inizio a marzo, poco dopo l'invasione russa dell'Ucraina. Catturato insieme al padre, è stato portato al di là del confine con l'accusa di essere un militare di Kiev. Ha camminato per giorni nella neve, con i soldati di Mosca che gli riempivano le scarpe di acqua per accentuare il dolore. Oggi si dice fortunato per essere tornato nel suo Paese grazie a uno scambio di prigionieri
Mykyta Gorban, 31 anni, tira un profondo respiro. “Ricordare è un po’ come rivivere tutto”, dice. Lunga pausa. E lui vorrebbe dimenticare i due mesi trascorsi in mano ai russi, ma non ci riesce. Mesi di prigionia che sono costati a Mykyta le dita dei piedi. E ora sta imparando a camminare senza. “Lo sai cosa mi ha aiutato a non impazzire?”. Respiro profondo, altra pausa: “La musica. Cantavo. Quando potevo, lo facevo a voce alta, altrimenti nella mia mente”.
Mykyta, madre russa e padre ucraino, si trova ora a Kiev in ospedale. La sua storia inizia a marzo, poche settimane dopo l’invasione, nel villaggio di Andreyevka, a ovest della capitale, in cui vive con la famiglia. “Eravamo a casa. Tutte le volte che sentivamo le colonne dei soldati passare ci nascondevamo in cantina. Uscivamo quando c’era silenzio”. Quel giorno erano passate circa tre colonne e poi sembrava tutto tranquillo. Mykyta e il patrigno, che lui chiama padre, lasciano il rifugio pensando che il pericolo fosse finito. “I russi non erano andati via. Erano rimasti nel villaggio e ci hanno catturato. Ci hanno preso subito telefoni e passaporti. Lo portavo sempre con me il passaporto e non so perché lo facessi. La guerra ti fa fare cose strane”.
I russi gli legano le mani dietro la schiena e gli bendano gli occhi: “Non vedevamo niente”. Iniziano a interrogarli. Mykyta gli spiega che è un civile. Lavora a Kiev, in ospedale, in un laboratorio di analisi. I soldati però iniziano a picchiare sia lui che il padre. “Eravamo civili, accidenti, e stavamo a casa nostra, ma loro non volevano sentire ragioni”. Li portano nel bosco, o almeno così a Mykyta è sembrato. “Eravamo in un campo, fuori. C’erano altre persone in quel posto. I russi continuavano ad accusarci di essere militari e noi a ripetere che eravamo civili. Era inutile cercare di farli ragionare. A chi lo faceva spezzavano le dita. Sentivo le urla”.
Quel giorno era freddo e nevicava. I soldati ordinano agli uomini di stendersi in terra. Li tengono per due o forse tre giorni (“È difficile orientarsi nel tempo quando si hanno gli occhi bendati”.) e ordinano loro di non muoversi. A volte arriva qualcuno e inizia a picchiarli. “Sparavano in continuazione e allora ci dicevamo addio. Eravamo sicuri di morire. Per fortuna ci è andata bene”.
Mykyta non sa dove siano sua moglie, il loro bambino di cinque anni e sua madre. Spera siano riusciti a scappare. I soldati gli hanno levato le scarpe mentre fuori continuava a nevicare. Le temperature sono sotto lo zero, ma loro riempiono le scarpe d’acqua e lo costringono a infilarsele. Il freddo diventa insopportabile. “A volte arrivavano degli ufficiali e urlavano di farci fuori. A che serviva tenerci in vita, dicevano”. Poi caricano gli uomini di Andreyevka sui camion e li portano in Bielorussia. Da lì, con elicotteri e aerei cargo, li trasportano in Russia, nella regione di Kursk. Gli levano finalmente le bende.
Mykyta, suo padre e gli altri sono in un accampamento militare. Ci sono centinaia di uomini. Tutti ucraini. Camminare diventa sempre più difficile. Guarda per la prima volta i suoi piedi. Le dita sono blu. All’ospedale del campo gli mettono delle bende e gli consigliano di stare al caldo, cosa impossibile perché vivono nelle tende. E poi continuano a interrogarli. Mykyta deve promettere di non tenere più armi in mano, anche se è un civile e le armi non le ha mai usate. Dal campo sono trasferiti nel centro di detenzione N. 1 di Kursk. Mykyta è in cella col padre. “Le giornate erano lunghe. A volte, quando avevamo esaurito gli argomenti di conversazione, cantavo e gli altri iniziavano a piangere. Pensavamo alle nostre famiglie non sapevamo cos’era successo loro”.
I piedi sono un dolore costante. Le dita cadono da sole. È trascorso un mese da quei giorni nel bosco. I medici gli danno degli antibiotici, ma è ormai troppo tardi. All’ospedale militare gli dicono che devono amputargli le dita. “In quell’ospedale c’erano prigionieri ucraini e soldati russi. Non era una bella situazione. I medici però ci proteggevano. Erano gentili, compassionevoli. L’operazione è andata bene. Qui a Kiev mi hanno detto che i chirurghi sono stati bravi”.
Un giorno arriva un comandante e dice a Mykyta di essere nella lista di quelli che dovevano essere riportati a casa. Il padre rimane invece nel centro di detenzione e tutt’oggi Mykyta spera si trovi ancora lì. Il 31enne viene lasciato a Zaporizhzhia. Di sicuro è scambiato con dei prigionieri russi.
Secondo la vicepremier ucraina, Iryna Vereshchuk, più di 1.700 soldati e civili ucraini (tra cui 500 donne) sono in mano agli uomini di Mosca. Prigionieri che vengono usati come scambio con i soldati del Cremlino. Mentre Mykyta era prigioniero, la moglie Nadya, il figlio Artyom e la madre Svetlana sono riusciti ad arrivare in Belgio. “Artyom studia francese”, dice Mykyta con orgoglio.
Del suo villaggio, invece, sono rimaste solo macerie. La casa in cui viveva la famiglia è inabitabile. Mykyta non ha un posto in cui andare e vive nell’ospedale di Kiev in cui lavorava come assistente di laboratorio e che oggi però lo accoglie come paziente. Ora sta imparando di nuovo a camminare. “Non è facile”.
Il giovane però non si arrende, continua a studiare in due facoltà: biologia e programmazione. “Mia moglie fa lo stesso”. Ora sogna di andare in Belgio per raggiungere la sua sposa e il figlio. “A volte penso che a me, dopotutto, non sia andata così male. In tanti sono morti in questa inutile guerra”.