Calcio

Alessandro Gazzi, Carlo Ancelotti e Jürgen Klopp: l’elogio del capitale umano nel calcio dei campioni (e dei soldi)

OSVALDO: PICCOLA BACHECA DI STORIE DI SPORT SU CARTA - Questo non è uno scaffale, questi non sono consigli per gli acquisti: qui si racconta ciò che ci è piaciuto leggere nell'ultimo mese. In questa puntata lo straordinario monologo interiore scritto (realmente) da Alessandro Gazzi e i libri sul profilo sociale degli allenatori che si contendono la Champions League

La voce dall’altro capo della cornetta è gentile, il tono estremamente educato. Eppure su una cosa Alessandro Gazzi è intransigente. Perché ci tiene a specificare subito il cuore della questione. “Il libro l’ho scritto tutto io”, dice. “Non mi sono servito di nessun ghostwriter“, aggiunge. È un dettaglio fondamentale. Perché Un lavoro da mediano – Ansia sudore e Serie A è molto più del suo primo libro. È la sua anima stesa su carta, il racconto di una vita ordinaria nello straordinario e abbacinante mondo del pallone. Un viaggio lungo più di vent’anni, con l’ansia come costante compagna di viaggio, con il centrocampo come habitat naturale da preservare. Quella di Gazzi è una biografia che diventa romanzo, perché accende le luci su quel ruolo sempre in ombra cantato da Ligabue, fino a trasformarlo in argomento letterario. Ma anche perché racconta le emozioni del gregario, di chi trova il suo punto più alto non nel segnare, ma nello strappare un pallone. È una storia che trova il suo incipit a Treviso in Serie B e la sua fine all’Alessandria in C. In mezzo litri di sudore che hanno imbevuto le maglie di Viterbese, Bari, Reggina, Siena, Torino e Palermo e una partecipazione all’Europa League come punto più alto di una parabola che affascina il lettore grazie anche alla sua semplicità.

Alessandro, la scrittura è davvero un bisogno come dicono?
Nel mio caso è stato un percorso, un progetto che è cresciuto anno dopo anno. La prima pietra è arrivata nel 2014, quando lavoravo sulla performance della domenica insieme a Gabriella Starnotti, una psicologa dello sport. È stata lei che mi ha incoraggiato a iniziare a scrivere. Così ho aperto un blog dove buttavo giù dei brevi testi sulle mie esperienze in campo.

Dal blog al libro. Tutto quasi per caso
Sì. Un giorno un mio amico mi parla di un concorso di racconti promosso dalla casa editrice 66thand2nd. Decido di inviarne uno mio. Si intitola Dieci minuti. Sono un po’ scettico, ma alla fine è stato scelto ed è entrato in un’antologia. Da qui abbiamo deciso di fare un ulteriore passo in avanti ed è venuto fuori il libro.

Ogni autore è stato influenzato da altri scrittori. I tuoi punti di riferimento?
Agassi con Open e David Peace con il Maledetto United. Sono quelli che mi hanno colpito di più. Ma non sono uno con dei punti di riferimento intoccabili, alla fine ho letto sempre e solo per divertimento e sempre quello che mi capitava. Un altro che mi è rimasto impresso è Kazuo Ishiguro, soprattutto per Non Lasciarmi e Quello che resta del giorno.

La difficoltà più grande che hai incontrato nello scrivere il tuo libro?
Fortunatamente l’ho scritto sulla mia esperienza in campo, quindi mi sono mosso su un terreno che conoscevo bene. Nel corso degli anni però avevo già scritto qualche bozza, mentre alcune parti derivano dai testi che avevo scritto per il mio blog. Anche per questo non ho incontrato difficoltà. E poi è stato molto importante Alessandro Gazoia, l’editor di 66thand2nd. Mi ha guidato in questo percorso che avevo intrapreso.

Da piccolo eri il ragazzino con il walkman. Cosa suonava nelle tue cuffie?
I primi ascolti sono legati soprattutto ai vinili dei miei genitori. Così ho scoperto i Pink Floyd. Poi per me sono stati fondamentali alcuni gruppi degli anni Novanta come Radiohead e Smashing Pumpkins. Adoravo leggere le riviste specializzate e concentrarmi molto sui gruppi e sui generi che mi piacevano. Per questo sentivo poco la radio.

A 18 anni il tuo cartellino valeva già due miliardi di lire. Che effetto ti faceva sapere di avere un prezzo così alto?
Dipende molto dal carattere del ragazzo, dalle sue ambizioni e da come vede lui decide di vivere la sua esperienza. All’inizio avevo molti punti interrogativi in testa. Ho dovuto lasciare casa mia ed ero estremamente carico perché avevo la possibilità di giocare nella Primavera della Lazio, una delle società più quotate in Italia. Per la prima volta mi sono reso conto che quel sogno, che non avevo mai preso seriamente in considerazione, poteva diventare realtà.

Da dove venivano queste aspettative così basse?
Parzialmente anche da mio padre, ma in senso buono. Quando avevo intravisto la possibilità di giocare ad alti livelli, mi aveva detto di stare attento perché uno su seimila diventa professionista. Sinceramente mi ero messo l’anima in pace, mi ero detto: divertiti durante la tua adolescenza, ma non ti fissare con l’idea di diventare un professionista.

Per molto tempo ti sei sentito un pesce fuor d’acqua. Fino a quando è durata questa sensazione?
Ero un ragazzino che si trovava davanti a dirigenti di alto livello. Ero partito dalle montagne bellunesi ed ero arrivato fino a una delle squadre più importanti della Serie A. Il mio percorso da calciatore è andato avanti con un inserimento graduale e sono riuscito a raggiungere la Serie A. Vedevo che questo lavoro diventava parte integrante della mia vita. Così non mi sono più sentito a disagio.

L’ansia è stata una tua costante compagna di viaggio.
L’ansia che descrivo nel titolo del libro raccoglie tutte gli status della vita di un calciatore, non solo le pressioni o le paura. Non so se l’ansia sia stata un freno, ma il mio essere molto autocritico a volte mi faceva pensare di non aver mantenuto le aspettative che si erano generate su di me all’inizio della mia carriera. Fortunatamente, però, nel corso degli anni sono riuscito a correggere questo lato del mio carattere. Il mio è stato un percorso in continua salita, ma mi sento molto fortunato.

Ci aspettiamo troppo dai calciatori?
Credo di sì. Mi spiego: quando inizi a giocare da piccolo devi superare una marea di selezione, tagliare i ponti con il contesto in cui sei cresciuto, prepararti a inseguire obiettivi e sogni rinunciando a qualcosa. I calciatori di alto livello svolgono un lavoro sicuramente magnifico, ma per certi versi è anche dura, devi far fronte a una pressione smisurata e non tutti riescono a gestirla nello stesso modo.

Le offese del pubblico quanto possono far male?
Dipende dallo stato d’animo di chi le riceve. Se sei in ottimo condizioni mentali non ti fanno né caldo né freddo. Ma in generale dipende dal carattere del calciatore. Il problema non sono tanto i fischi, ma i social dove poi la gente si sfoga. Credo però che faccia tutto parte del gioco.

Lo stereotipo che viene pronunciato più spesso per i calciatori?
Che sono tutti milionari. Che poi è anche lo stereotipo meno corretto. Spesso ci si concentra sui calciatori migliori, quelli più acclamati. Ma la maggior parte non guadagna assolutamente quelle cifre.

Se stato con Mazzarri alla Reggina. Che ricordo hai di lui?
Ho lavorato con lui per sei mesi, quindi non l’ho conosciuto a fondo. Mi ha dato l’idea di una persona molto preparata da tutti i punti di vista. Può essere ombroso, ma è un uomo davvero in gamba. Giuro che non ha mai sbroccato negli spogliatoi come uno potrebbe pensare.

Quanto c’è di Mazzarri in quella Reggina che si è salvata nonostante la penalizzazione di 17 punti?
Tantissimo. Si respirava un’aria incredibile. Sapevamo che c’era solo da guadagnarci nell’essere spavaldi, perché la nostra squadra era veramente forte.

Dopo la salvezza conquistata con la Reggina torni a Bari, di nuovo in B. Matarrese ti dice: “La Serie A la devi conquistare qui”. È una frase che sembra una follia.
Chiaramente dopo sei mesi speravo di restare alla Reggina. Bari giocava in B ma aveva delle difficoltà, così quando Matarrese mi disse quella frase restai un po’ imbarazzato, anzi, spaesato. Pensavo: “Ma si rende conto di quello che dice?”. Il Bari veniva da una salvezza striminzita e stava affrontando una rifondazione. Poi però le coincidenza hanno scritto una storia diversa.

Quanto è stato impattante Antonio Conte sulla sua carriera?
Ci sono stati molti momenti importanti, storie che si accavallano. Quell’incontro mi ha dato obiettivi nuovi. Conte aveva avuto un’esperienza calcistica incredibile e diventò determinante. Io giocai sempre e arrivai addirittura in Serie A. Uno che viene dalla Serie C ha bisogno anche di cose come questa per ritagliarsi un posto in A.

Questa idea di Conte che spreme fino all’ultima goccia emotiva dai suoi giocatori è realtà o leggenda?
Lui dà tantissimo e vuole tanto. Ti impone il suo punto di vista, il suo modo di vedere il calcio, di intendere la vittoria, perché è quello a cui ambisce. È uno che ti arricchisce, sia per la sua professionalità che per il suo modo di essere.

L’allenatore con le idee più interessanti che hai incontrato?
Un po’ tutti, devo dire. Vedo molte similitudini fra Ventura e Conte. Poi ho avuto anche De Zerbi per qualche mese. Quando giochi a calcio è bello confrontarsi con queste idee diverse. A volta capita di imbattersi in idee originali che possono andare d’accordo con quelle che sono diventate più comuni. Il confronto è essenziale.

Come è stato lavorare con Ventura al Torino?
Con il mister ho un rapporto splendido. Ho lavorato con lui per sei anni e se sono riuscito a giocare nel Toro è stato anche grazie a lui. Appena l’ho conosciuto mi ha fatto vedere un calcio diverso da quello di Conte. Ventura esprimeva il suo modo di essere e si abbina bene con i miei sudi in informatica. Mi diceva sempre di pormi delle domande su chi ero e su chi avrei voluto essere. Sotto questo aspetto mi ha aiutato molto. Oltre a essere preparatissimo, ha dimostrato di avere una sua logica e un modo di vedere le cose molto originale innovativo. Ventura è stato una delle fortune della mia esperienza calcistica, era un duro che cercava comunque di infondere buonumore.

Dopo la Svezia, però, c’è stata una damnatio memoriae nei suoi confronti.
Diciamo che in queste occasioni così difficili i giudizi vengono espressi sull’onda dell’emotività, quindi si rischia sempre di essere eccessivi. Credo che in molti abbiano cercato un colpevole immediato senza però cercare le responsabilità più generali in quella eliminazione.

L’Europa League è stato il palcoscenico più importante della tua carriera.
Sì, perché avevo 32 anni end è stato un premio inaspettato. Stavo per intavolare una trattativa con lo Spezia, in Serie B, e mi ritrovo a giocare in Europa. Ha rappresentato una crescita importante, un percorso stimolante che mi sono goduto fino in fondo. La sfida contro l’Athletic Bilbao nei sedicesimi di finale è diventata una delle partite simbolo dei tifosi del Toro e la vittoria al San Mames è un’emozione che mi porterò dietro per tuta la vita.

L’avversario che più hai ammirato in campo?
Tevez. Ho una foto con lui in salotto.

Cosa ti manca di più del calcio?
In questo momento non c’è niente di specifico, perché sono stato così tanto gratificato che mi sento bene. Ho chiuso un libro e ne ho aperto un altro. Magari fra qualche anno ti dirò che manca entrare in uno stadio pieno di gente, ma ora mi sento in pace con me stesso.

Com’è stata, alla fine, questa vita da mediano?
È andata perfettamente secondo i piani. Anzi, ti dirò di più, la mia parabola professionale rispecchia molto quello che sono io, con i miei pregi e i miei difetti, con i miei punti di forza e le mie debolezze. Alla fine ho sempre cercato l’equilibrio. Sia in campo che fuori.

Alessandro Gazzi, Un lavoro da mediano – Ansia sudore e Serie A, 66thand2nd, 2022, 235 pagine, 17 euro.

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La normalità del condottiero
“La Foresta Nera non è affatto nera, e non è nemmeno una foresta, per lo meno non più”. È uno degli incipit più belli della letteratura sportiva recente. E non è un caso che introduca il racconto di uno degli allenatori più iconici degli ultimi anni. Jürgen Klopp è l’uomo che è riuscito a creare una rivalità tutta nuova con Pep Guardiola, meno ideologica e più tattica rispetto a quella che l’uomo di Santpedor aveva instaurato con Mourinho ai tempi del Barcellona. La contrapposizione fra i due va oltre la dicotomia possesso palla/verticalità. È uno scontro fra un allenatore che è stato caricato di un manto filosofico contro uno che ha sempre ricercato la normalità, fra la squadra intesa come un’orchestra sinfonica e quella che ricorda un gruppo heavy metal. La vera storia di Klopp inizia nella stagione 2000/2001. Prima è un calciatore destinato a non rimanere nella storia, addirittura il peggiore in campo della squadra in qualche uscita. Poi il Mainz esonera l’allenatore. Christian Heidel, il direttore sportivo del club, è alla ricerca di un allenatore che possa giocare con la difesa a quattro. Un giorno riceva la telefonata di Krautzun, uno che non era neanche stato preso in considerazione. Il tecnico parla così tanto che riesce a strappare un incontro durante il quale non fa che parlare d’altro che della difesa a quattro e degli esercizi specifici per quel modo. Fino a quando non riesce a ottenere l’incarico. Qualche giorno dopo Klopp incontra Heidel e gli dice che un mese prima Krautzun l’aveva chiamato: “Voleva sapere come funzionava la difesa a quattro, ne abbiamo parlato per tre ore”. È un segno del destino. Poco dopo Heidel deciderà di affidare la squadra direttamente al suo difensore. L’idea lascia perplessi i giornalisti, che durante la conferenza stampa si alzano e se ne vanno. Poco male. Il mito di Jürgen Klopp aveva già trovato la sua genesi.

Raphael Hingstein, Jurgen Klopp, Scatenate l’inferno, Rizzoli, 2020, 336 pagine, 18 euro.

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Viaggio emozionale sul pianeta Jurgen
Jurgen Klopp come allenatore, certo, ma soprattutto come fenomeno sociale. È questo il cuore dell’agile volume di Armando Maria Todino, insegnante con la passione per il Liverpool e per il suo tecnico, che vuole essere contemporaneamente biografia e lettera d’amore. Un libro che non lesina l’uso della prima persona singolare, ma che riesce a trasformarsi in indagine, in chiave per capire come un allenatore sia riuscito a trascendere il proprio ruolo fino a diventare trascinatore. Tanto per i suoi giocatori quanto per tutto l’ambiente che lo circonda. Da Mainz a Liverpool, dimostrando sempre che la straordinarietà, a volte, risiede proprio nella normalità.

Armando Maria Todino, Jurgen Klopp The Normal One, Urbone Publishing, 2020, 157 pagine, 15 euro.

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Anatomia di un leader
Corteggiamento, luna di miele, valutazione dei risultati, separazione. È questa la parabola della leadership. E la bravura dell’allenatore, inteso come manager, sta tutta nella capacità di mettere più giorni possibile fra il primo e l’ultimo step. È questo il vangelo secondo Carlo Ancelotti, uno dei tecnici più vincenti della storia del calcio che ha deciso di scrivere un libro molto particolare. Un po’ biografia, un po’ manuale per chi sogna di imparare a gestire il capitale umano, l’allenatore del Real Madrid spiega alla perfezione tutte le difficoltà e i passaggi più salienti della sua straordinaria carriera. Il fischio di inizio arriva con la Reggiana. “La squadra era appena retrocessa in B e aver bisogno di un grande nome – scrive – io ero un grande nome e mi sentivo pronto. Non per il progetto in generalem forse, ma per essere il capo sì”. È lì che Carlo viene colto da un’epifania: «Il problema, quando inizi ad allenare poco dopo aver smesso di giocare, è che pensi che sapere tutto. In realtà non sai nulla. La prima difficoltà è avere un buon rapporto con i calciatori e allo stesso tempo essere il loro capo». Ancelotti, che allora è più sacchiano di Sacchi stesso, se la vede male. Non ha neanche il patentino. E dopo sette giornate già rischia l’esonero. Quello che sembra l’inizio della fine, invece, è l’inizio di una carriera straordinaria. Merito di una straordinaria conoscenza calcistica, ma anche di un ottima capacità di gestire gli uomini e di una resilienza fuori dal comune. Un manuale per aspiranti leader compresso in poco già di 300 pagine.

Carlo Ancelotti, Il leader calmo – Come conquistare menti, cuori e vittorie, Bur, 2017, 331 pagine, 13 euro.