Il dado è tratto: entro cinque mesi l’Italia saprà se avrà una rete unica di ultima generazione e se l’ostacolo dei 22 miliardi di debiti dell’ex monopolista Tim sarà aggirato. Queste le poche certezze dopo la firma, nella serata di domenica 29 maggio, dell’accordo tra Telecom, Open Fiber e Cassa Depositi e Prestiti, oltre che dai soci finanziari, sulla comune intenzione di integrare le infrastrutture di Tim e Open Fiber, entrambe partecipate della Cassa, includendo anche la fondamentale rete primaria di Telecom, quella che collega la centrale agli armadietti sotto casa. Ottime notizie, insomma, anche se la strada resta lunga e tortuosa e il percorso tutto da tracciare. Intanto l’accordo dovrà sfociare in un’intesa vincolante entro ottobre. Poi bisognerà passare dalle intenzioni alle azioni. E non sarà facile perché gli interessi in campo sono molti. Anzi, moltissimi.
Il principale non sembra certo essere la necessità del Paese di dotarsi di un’infrastruttura di rete all’avanguardia, visto che il problema giace insoluto da anni sul tavolo del governo nonostante, almeno dall’esecutivo Renzi in giù, sia stato sempre in cima alla lista dell’agenda digitale di Palazzo Chigi. Con i risultati che tutti, dai comuni impiegati agli scolari, passando per banchieri, politici, sanitari e ministeriali, hanno potuto provare sulla loro pelle durante il lockdown della primavera del 2020 quando cercavano di lavorare online.
Sicuramente il tema più caldo resta quello dei debiti monumentali che Telecom ha accumulato negli anni seguiti alla privatizzazione che oggi superano abbondantemente quota 22 miliardi di euro: circa due terzi sono obbligazioni e il resto prestiti bancari, incluso oltre 1 miliardo ricevuto dalla Banca europea degli investimenti. Impegni importanti che sono garantiti proprio dalla rete telefonica e che andranno onorati, ridotti o nuovamente garantiti in seguito alla separazione, in Tim, della rete dai servizi. In altre parole, bisognerà vedere dove andrà a finire il debito di Tim e chi lo pagherà. Molto dipende dal valore che verrà attribuito alla nuova entità che i più ottimisti stimano in 25 miliardi di euro.
Benché si tratti di un’azienda privata, infatti, la questione dei debiti di Tim non è indifferente allo Stato per svariate ragioni che, oltre ai creditori, riguardano anche i 42mila dipendenti di Telecom e l’azionariato della compagnia che oggi al posto della banche vede la Cassaforte dello Stato, la Cassa Depositi e Prestiti, accanto ai francesi di Vivendi, tradizionalmente interessati ai servizi e ai contenuti piuttosto che alla rete. Tuttavia un’infrastruttura di rete che includerà anche i cavi sottomarini, può essere un business interessante e ricco, se ben costruito, non a caso fondi come gli americani di Kkr e gli australiani di Macquarie si sono già ricavati uno strapuntino e hanno chiesto un posto al tavolo delle trattative. Resta inteso che saranno disposti a investire ancora se vedranno dei margini di crescita, diversamente toccherà allo Stato farsi di nuovo avanti nonostante siano passati ormai 25 anni dalla privatizzazione di Telecom. E non potrà farsi comunque da parte, dovendo mediare e tutelare l’interesse pubblico su una materia così sensibile da essere tutelata dal Golden Power, il diritto di veto del governo.