FOCUS - Maurizio Righetti, docente di Costruzioni idroelettriche, spiega: "Il 67% del parco idroelettrico del Paese è in esercizio dagli anni ’60 e le concessioni sono in scadenza. Ma l'ammodernamento non cambierebbe sensibilmente la potenza installata". L'esperienza del mini-idro e il tema della scarsità dell'acqua che rischia di rendere irregolare la produzione: "Si possono accoppiare questi impianti ad altri di rinnovabili non programmabili"
L’idroelettrico rappresenta il 40,7% della generazione elettrica da rinnovabili in Italia (il solare è al 21,3%, l’eolico al 16%): dalle centrali a valle delle dighe o lungo i fiumi che sfruttano il movimento dell’acqua arriva circa il 17,6% della produzione totale di energia (circa 49 su 280 TWh, dati Terna 2020). È possibile sfruttare ancora di più questa risorsa? “Potenzialità ci sono, ma bisogna capire in che direzione investire dato che nelle aree adatte ai grandi impianti già si è costruito e i mini-idro realizzati negli ultimi vent’anni non hanno contribuito più di tanto alla produzione di energia da questa fonte” spiega a ilfattoquotidiano.it Maurizio Righetti, docente di Costruzioni idroelettriche presso l’Università di Bolzano. C’è, poi, una spada di Damocle: la stragrande maggioranza di questa energia si produce sulle Alpi con impianti grandi e datati. Il 67% del parco idroelettrico del Paese è in esercizio dagli anni ’60. E, come sottolineato in un recente studio di The European House – Ambrosetti (commissionato da A2A, Edison ed Enel) l’86% delle concessioni di grandi derivazioni idroelettriche è già scaduto o scadrà entro il 2029. Un’analisi costi-benefici, dunque, è necessaria sia rispetto agli impatti sull’ambiente, sia alla luce dell’andamento dei prezzi dell’energia, del contesto geopolitico e degli effetti dei cambiamenti climatici. A causa di uno degli inverni più siccitosi di sempre, infatti, la generazione idroelettrica ha subìto un tracollo del 44,2% nel primo trimestre del 2022, rispetto allo stesso periodo del 2021. “Servono studi che ci dicano come sfruttare l’idroelettrico in modo diverso e potenziare quello che già abbiamo” aggiunge Righetti, secondo cui le parole chiave sono ‘accumulo’ e ‘sinergia con altre rinnovabili’.
Idroelettrico, a che punto siamo – Semplificando, l’energia idroelettrica si ricava da fiumi e laghi, con condotte forzate che sfruttano il movimento dell’acqua in caduta. Grazie a impianti dotati di turbina (attraverso cui fluisce l’acqua) e alternatore, l’energia cinetica viene trasformata in elettrica. Secondo l’elaborazione The European House – Ambrosetti su dati Eurostat con 22,4 GW, l’Italia è il terzo Paese europeo per potenza installata, dopo Norvegia e Francia. Il 73,4% della capacità è concentrata al Nord: 13,4 GW (il 58% del totale) tra Lombardia (6,1 GW), Piemonte (3,8 GW) e Trentino-Alto Adige (3,4 GW). Nel Centro d’Italia c’è appena il 6,7% della capacità totale (1,5 GW), tra Sud e Isole il 19,9% (4,5 GW). Ma se gli andamenti previsti dal Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima mostrano una crescita sostenuta per le rinnovabili, in particolare tra il 2025 e il 2030 (+12,2%), per l’idroelettrico la potenza installata dovrebbe aumentare di appena l’1,8% rispetto al 2017, trattandosi di un settore già maturo.
Grandi impianti e mini-idro – È davvero così? “In Italia, nei siti più adatti ai grandi impianti sono già in funzione strutture molto produttive e – spiega Righetti – non credo che ci siano molti margini per fare nuovi impianti di quel tipo”. Sarebbe, inoltre, complicato. “Dopo la Seconda Guerra Mondiale le montagne erano quasi disabitate. Se espropriavi qualcuno – racconta – era una tragedia per quella comunità, ma nessuno gridava allo scandalo. Proviamo a immaginare cosa accadrebbe oggi se pensassimo di innondare una valle e costruire una diga alta 50 metri”. L’altra strada è quella degli impianti di piccola taglia. “Fino al 2000, poco prima degli incentivi alle rinnovabili previsti nel Decreto Bersani – aggiunge il docente – avevamo circa mille impianti sulle Alpi. Vent’anni dopo siamo arrivati a oltre 4mila”. Sono stati realizzati migliaia di mini-idro ad acqua fluente “che, però – continua l’esperto – hanno contribuito per circa il 5% all’attuale produzione nazionale di energia da idroelettrico”. ‘Ad acqua fluente’ significa che, al contrario di ciò che avviene negli impianti a serbatoio, si sfrutta la portata naturale di un corso d’acqua. Non c’è accumulo: si produce quando c’è acqua e se il fiume è secco non si produce.
Gli impianti davvero produttivi – Oggi gli impianti sono circa 4mila e 600: più di 200 sono quelli a bacino per una potenza efficiente lorda di circa 5mila megawatt, circa 190 sono a serbatoio e hanno una potenza totale di oltre 12mila MW (più di 7mila dovuta a poco più di venti impianti a pompaggio) e tutti gli altri (più di 4mila impianti, oltre il 90% del totale) sono ad acqua fluente, ma hanno una potenza complessiva di 6mila megawatt. In pratica meno dei 23 impianti a pompaggio. Di fatto, negli ultimi due decenni è stato costruito il 15% della potenza installata in Italia. “Anche se il mini-idro ha portato dei benefici a livello locale, con l’autoproduzione in loco e la possibilità di guadagno per chi ci ha fatto business – spiega l’esperto – questi piccoli impianti non generano vantaggi importanti dal punto di vista strategico”. Tuttora le installazioni medio-grandi (superiori ai 30 MW) in Italia rappresentano il 71% in termini di potenza. Per questo per Righetti è importante valutare “se il gioco vale la candela” prima di moltiplicare gli impianti di piccola taglia in modo insostenibile: “Da costruttore idraulico sono favorevole all’idroelettrico, ma ne riconosco alcuni impatti ambientali. Realizzare questi mini-idro significa comunque interrompe la continuità fluviale”.
Gli impatti ambientali – L’idroelettrico viene considerato una fonte pulita di energia: secondo il Joint Research Center della Commissione Ue, il ‘lifecycle assessment’ dei gas serra prodotti da questa fonte è il più basso (insieme all’eolico) di tutte le tecnologie energetiche disponibili, con 26 tonnellate di CO2 equivalente per ogni GWh di energia generata. Questo dipende dalle tecnologie utilizzate e dalle tutele normative dei singoli Paesi ma, comunque, non vuol dire che non vi siano impatti sull’ambiente. Tanto che si discute dei reali benefici per le popolazioni montane, dato che il sovrasfruttamento o la deviazione di corsi d’acqua rappresenta di per sé una minaccia per gli ecosistemi. Emblematica la ‘Protesta dei pesci’ portata avanti in Italia agli inizi del 2020 da un gruppo di diciotto associazioni “per salvaguardare gli ecosistemi di fiumi e torrenti da una nuova ondata di progetti mini e micro-idroelettrici”. Quasi 500 nuovi impianti che avevano appena avuto via libera e incentivi grazie al Decreto Rinnovabili FER 1 e che avrebbero prodotto in media 500 kilowatt, come un piccolo impianto di 150 pannelli solari.
L’efficentamento del parco esistente – Una strada percorribile è certamente il rinnovamento del parco esistente. Anche perché l’impatto sull’ambiente è spesso determinato proprio da strutture datate e inadeguate rispetto alle nuove tecnologie. “Alcuni esperti – spiega Righetti – calcolano che si può arrivare a un incremento che va dal 10 al 30% dell’efficientamento delle macchine degli impianti”. Secondo l’analisi di The European House – Ambrosetti una revisione della durata delle concessioni idroelettriche, di cui molto si discute in queste settimane “permetterebbe agli operatori di investire in Italia 9 miliardi di euro in più rispetto a oggi” generando “altri 26,5 miliardi di euro sul territorio attraverso gli effetti indiretti e indotti”. Perché se l’Ue è prima per investimenti privati con un miliardo di euro, gli autori dello studio sottolineano come l’Italia abbia adottato “un quadro normativo disincentivante, che non garantisce certezza agli operatori”. Con la durata più breve delle concessioni, 20-40 anni prorogabili dalle Regioni di altri 10 anni (contro i 75 anni di Francia, Portogallo e Spagna e la durata illimitata di Finlandia e Svezia) e la maggiore apertura alla concorrenza”. Anche per questa fonte energetica, poi, si pone il problema delle competenze, alcune di esclusiva competenza statale, altre concorrenti tra Stato e Regioni.
Ripensare l’idroelettrico – Per Righetti, però, la questione concessioni non risolve il problema, mentre la vera svolta dovrebbe passare da un ripensamento dell’idroelettrico: “Va accoppiato ad altre energie rinnovabili non programmabili, andando a compensare quei picchi di sovraproduzione che non possono essere immessi in rete”. Gli impianti ‘a serbatoio’, al contrario degli impianti ad acqua fluente “permettono di accumulare l’acqua, solitamente su scala annuale”. Ad aprile è scoppiata la polemica tra il Veneto e le province autonome di Trento e Bolzano a cui la Regione guidata da Luca Zaia ha chiesto di rendere disponibile l’acqua dei bacini per irrigare i campi. “Possiamo discutere di come usare quell’acqua – commenta Righetti – ma, se non ci fossero stati i serbatoi, non ci sarebbe stato nulla di cui discutere”. Tra gli impianti a serbatoio, anche quelli a pompaggio (oggi poco sfruttati) che, in quest’ottica, possono offrire il maggiore contributo. Si può stabilire quando e quanta energia produrre in funzione della domanda e del prezzo grazie a una specie di pendolo tra due serbatoi, uno a monte e uno a valle. Durante le ore diurne, quelle in cui c’è maggiore richiesta di energia e il prezzo è più alto, l’acqua viene fatta fluire a valle, attraverso le turbine, producendo energia. Questi impianti accumulano l’eccesso e, nelle ore notturne, l’acqua viene pompata al bacino a monte. “Una volta si faceva così e molti lo fanno ancora – spiega Righetti – ma oggi è possibile accoppiare questi impianti ad altre rinnovabili non programmabili”. Quando c’è un eccesso di energia solare o eolica, si ripompa l’acqua nel serbatoio a monte, che diventa un serbatoio naturale di elettricità. “Lo fanno in tanti, ci sono diverse applicazioni in Svizzera, Norvegia, Svezia, Spagna, Portogallo – racconta – ognuno sfrutta le sue risorse e noi potremmo sfruttare il solare”.
Gli effetti dei cambiamenti climatici – Ma ripensare l’idroelettrico significa tener conto di come i cambiamenti climatici cambino la disponibilità delle risorse. “Se in montagna non avremo più neve, l’acqua non rimarrà immagazzinata lì per mesi, ma arriverà direttamente. Bisogna pensarci ora” prosegue Righetti, che fa notare come il cambiamento sia già in atto. “Abbiamo avuto un inverno molto siccitoso. In questi serbatoi – spiega – c’è molta meno acqua rispetto agli anni precedenti”. I fiumi in secca, a partire dal Po e dai suoi affluenti, hanno portato a livelli di riempimento degli invasi vicini ai valori minimi degli ultimi 50 anni. Da qui la necessità di fare delle previsioni su quanto potranno riempirsi nei prossimi decenni: “I serbatoi sono fondamentali per non incappare in un’altra guerra dell’acqua”.