di Carmelo Sant’Angelo
La ruvida schiettezza di Nicola Gratteri è un’ondata di freschezza nella “morta gora” del palinsesto televisivo. Una cascata di buon senso e pragmatismo. Le sue parole spalancano le porte dei sepolcri imbiancati, interrompendo bruscamente le giaculatorie in riparazione delle bestemmie dei “peggiori”. Si fermano i turiboli, che lodano il governo amico dei padroni, si soffoca l’incenso dentro la navicella ed i mercanti si guardano increduli nel tempio della giustizia. Mentre il magistrato snocciola il rosario dei misteri dolorosi della giustizia, capisci che il re è nudo e la sua nudità è oscena.
Solo un Paese con un alto tasso di devianza criminale nelle sue classi dirigenti può dotarsi dell’istituto dell’improcedibilità, lasciando libertà ai giudici di pestare l’acqua nel mortaio, oppure impedire/limitare fortemente la diffusione di notizie su indagini e processi (decreto legislativo 188/2021). Ovviamente parliamo di indagini e processi relativi a persone eccellenti, non certo dei piccoli delinquenti.
Il prossimo 14 giugno tornerà in commissione giustizia al Senato la riforma dell’Ordinamento giudiziario, cioè il definitivo redde rationem. La vendetta tanto attesa quanto sognata da parte della politica ai danni dell’ordine giudiziario.
Una riforma “per metà inutile e per metà pericolosa” (secondo la definizione di Nino di Matteo), che aumenterà il potere delle correnti, che introduce surrettiziamente la separazione delle carriere, ma che soprattutto sarà il viatico per trasformare il Pubblico Ministero in un “avvocato della polizia”, un funzionario alle dipendenze dell’Esecutivo. Una schiforma che imbavaglia i giudici, lasciando il palcoscenico agli imputati, che potranno raccontare indisturbati le loro verità. Pretestuosi meccanismi di valutazione della pubblica accusa, sulla scorta delle condanne ottenute, che hanno l’unico obiettivo di impedire in futuro processi, dall’esito aleatorio, come quello sulla trattativa Stato-Mafia. Una congerie di norme avvinte da un’unica ratio: garantire alle classi dirigenti quella giustizia censitaria che da sempre pretendono.
Quella classe politica che ogni giorno ci ricorda che “non può girare la testa dall’altra parte” (per le armi, per il catasto, per i balneari…) dimostra, invece, di bendarsi gli occhi e tapparsi le orecchie di fronte al grido di dolore di magistrati in prima linea, che ogni giorno si recano nei propri uffici nell’angosciante incertezza se potranno fare ritorno a casa la sera.
Per il rispetto e la riconoscenza che si deve a loro (non abbiamo bisogno delle postume lacrime di coccodrillo) il Presidente cinquestelle Conte deve impedire l’approvazione di quest’ulteriore picconata alle fondamenta della democrazia. Il M5S non può rendersi complice di una tale nefandezza né accontentarsi di marginali miglioramenti. Occorre fermare questa deriva impunitaria con gesti forti, al fine di chiamare tutti alle proprie responsabilità, iniziando dal Presidente della Repubblica, che, pur presiedendo il Csm, non ha mostrato alcun turbamento per le nette prese di posizione dei magistrati impegnati in prima linea nel contrasto al crimine organizzato. Conte non abbia paura di lasciare il governo, abbandonando al loro triste destino Di Maio e i suoi sodali. La posta in gioco è troppo alta, si tratta di difendere il valore dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
Sono in gioco i valori fondanti e fondativi del Movimento, quelli per cui Gratteri e Nino Di Matteo fanno parte del Pantheon dei cinquestelle. Tra Draghi e Gratteri non ci deve essere alcun dubbio da che parte stare. Tra la Cartabia e Di Matteo, idem. Certamente il Presidente sarà accusato dall’establishment di essere un irresponsabile, per aver attentato alla vita del governo (che, comunque, non cadrà). Per gli attivisti del Movimento, invece, Conte sarà applaudito come i Maneskin, perché è “fuori di testa, ma diverso da loro”.
L’alterità ha portato un terzo dell’elettorato a scegliere l’unica forza del cambiamento. Ricordiamolo.