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Domenico Marocchi a FQMagazine: “Racconto il mondo, dalla guerra all’Eurovision. Fare l’inviato? Galvanizzante ma la vita privata è un limone ammuffito…”

"Di recente mi sono sentito dire: 'Ma come, prima parli della guerra e poi ti metti quelle giacche per i collegamenti dall’Eurovision? Non t’imbarazzi?'. Mi sentirei imbarazzato se andassi allo sbaraglio ma so cos’è un’operazione di Peacekeeping perché l’ho studiato e so anche come funziona il regolamento di Eurovision Song Contest, qual è il problema?": lo conoscete perché è tra i volti più popolari della Rai e si racconta a FQMagazine

Se non siamo al “l’ho inventato io” poco ci manca. Perché tra i primi ad intravedere un potenziale televisivo in Domenico Marocchi fu Pippo Baudo, in versione talent scout a Rai Lab, il laboratorio sperimentale attraverso il quale la Rai cercava nuove risorse artistiche. Insomma, nuovi talenti attraverso il quale innescare il ricambio generazionale. “Mi disse che ero un giornalista anomalo, uno strano ibrido tra Chiambretti e Mentana“, ricorda a FqMagazine Marocchi, da due stagioni inviato di Oggi è un altro giorno, il talk pomeridiano di Serena Bortone, su Rai1. Prima ancora ci sono stati Vita in diretta, Storie Italiane e Agorà, con cui ha macinato una media di centocinquanta collegamenti l’anno e ha raccontato dalla strada gli italiani, i grandi eventi, i personaggi che hanno lasciato il segno.

Era il 2012 da quando partecipò alla prima stagione del laboratorio sperimentale per le risorse artistiche, Rai Lab. Si ricorda quando la scelsero?
Lavoravo da qualche anno in alcune tv locali e avevo fatto un’esperienza nella redazione romana di SkyTG24. Quando uscì il bando per il laboratorio, attraverso il quale ricercavano nuove risorse artistiche, partecipai assieme a migliaia di altri giovani da tutta Italia. Inaspettatamente passai la prima scrematura e fui chiamato per un provino.

Dall’altro lato del tavolo c’era un tale Baudo: anche con lei Super Pippo può dire “l’ho inventato io”.
(ride) L’impatto fu emozionante, da brividi per me che sono sempre stato un cultore della tv. Presentai il mio elaborato e mentre il provino degli altri durava un quarto d’ora, il mio si concluse dopo quaranta lunghissimi minuti.

Nella commissione giudicante c’erano anche Maurizio Costanzo e Giampiero Solari.
Tutti erano chiamati a dare dei giudizi, ma l’ultima parola spettava a Baudo. Mi disse che ero un giornalista anomalo, uno strano ibrido tra Chiambretti e Mentana.

Come finì?
Che risultai primo in graduatoria. Senza quell’esperienza non so se le porte della Rai si sarebbero aperte.

Ha sempre saputo di voler fare il giornalista o è stata una passione improvvisa?
Ho sempre avuto la passione per la tv e per i giornali, ma non sono tra quelli che “ho sempre voluto fare il giornalista televisivo”. Da bambino sognano di fare il giornalaio perché pensavo “passo tutto il giorno a leggere e poi rimetto a posto le riviste”.

Il click quando è scattato?
Mentre studiavo Sciente internazionali e diplomatiche. Ebbi come professoressa un’inviata di guerra, Marcella Emiliani: non solo ci stimolava a leggere la stampa estera, ma anche ad aprire lo sguardo e l’orizzonte, a non fossilizzarci sul nostro piccolo recinto. Erano gli anni della guerra in Afghanistan e decisi di specializzarmi in politiche dello sviluppo.

Poi arrivò uno stage alla redazione esteri del Tg1.
Grazie all’università partecipai alla selezione e finii a Unomattina, all’epoca condotta da Monica Maggioni. Lei non credo si ricordi di me, io invece me la ricordo rigorosa e professionale: portò un approccio stile morning news all’americana, alle 6.40 del mattino arrivava in studio e aveva già chiaro il quadro completo di ciò che era successo nel mondo. Capii che quello era il posto dove volevo stare.

Torniamo a quel famoso provino con Baudo: dopo cosa accadde?
Molti si concentrarono su progetti collaterali, io invece volevo fare un’esperienza in redazione. Arrivai a Vita in diretta e dopo un po’ di rodaggio mi chiesero di fare l’inviato.

Se lo ricorda il primo collegamento?
Un battesimo del fuoco. Ero in piazza per la discesa dei forconi a Roma: quel pomeriggio sembrava dovesse finire il mondo. Urla, spintoni, clima tesissimo. Nel pieno della diretta arrivò un tizio che insultò il Presidente Napolitano.

Lei come reagì?
Istintivamente riuscii a togliere il microfono e a rimanere calmo. Spente le telecamere pensai che la mia carriera era finita ancora prima di cominciare. Arrivai in redazione, mi convocarono ed ero già pronto al peggio: “La prossima volta stai attento, si vedeva il marchio della bottiglietta dell’acqua”.

Dopo Vita in diretta è passato a Storie Italiane, poi ad Agorà e Oggi è un altro giorno, senza contare i programmi estivi. Nel 2023 saranno dieci anni da inviato, con una media di 150 collegamenti l’anno. La vita da inviato è più faticosa o galvanizzante?
Nel mio caso posso dire galvanizzante: sei sempre stimolato da incontri diversi, inaspettati e dalla scoperta di luoghi nuovi. Poi nei momenti in cui ti fermi senti addosso la fatica e ogni volta ti dici che non può essere per sempre. Parliamo di tv, certo, ma è usurante e ti toglie molto.

Ad esempio, cosa le toglie?
I rapporti personali. Anche le persone che ci tengono a te si stancano, non sai mai se ci sarai ad un compleanno e ad un appuntamento. La vita privata è il limone ammuffito che trovi nel frigo quando rientri da una trasferta lunga. Dopo di che, quando sei sul campo, è il lavoro più bello del mondo.

L’incontro più emozionante?
Ho visto tutti, dai potenti della terra agli intellettuali, fino ai disperati che fuggono dalle tragedie. Ogni storia che racconti ti lascia un piccolo graffio.

Nelle scorse settimane ha raccontato la guerra in Ucraina dal confine. Che traccia ha lasciato incrociare la marea umana di profughi?
È difficile schermarsi quando incroci centinaia di occhi in cui leggi delusione, disperazione e paura. A meno 11 gradi, sul confine polacco o rumeno, c’erano questi bambini piccoli che trascinavano valigie più grandi di loro, o padri che lasciavano mogli e bambini che ci dicevano “non so usare nemmeno una pistola ma vado a combattere”. Poi sono capitate anche cose strane: come in hotel, dove dopo la mezzanotte vedevamo uscire gli uomini in fuga dall’Ucraina nonostante la legge marziale. Lavorare sul campo ti permette di avere visione più complessa, di cogliere tante sfaccettature.

Il momento più divertente vissuto in questi anni?
Troppi per dirne solo uno. Sicuramente i Sanremo raccontati dalla porta carraia dell’Ariston, scontri con gli uffici stampa inclusi: lì vedi l’artista che entra nella fossa dei leoni e i grandi big spaventati di doversi confrontare con quel palco. Ma ricordo con divertimento anche il matrimonio di Harry e Meghan o il concentro dei Rolling Stone.

Quello indimenticabile?
I funerali di Fabrizio Frizzi e di Raffaella Carrà. Ricordo le migliaia di persone che sfilavano alle camere ardenti, la riconoscenza negli occhi delle maestranze e di chi ha lavorato con due grandi artisti come loro: nonostante il momento triste, mi sono sentito orgoglioso di far parte di questa azienda.

Il più complicato?
I due mesi e mezzo in Lombardia, durante il primo lockdown. Una sera, a Bergamo, nel mio hotel arrivarono decine di soldati: non si capiva cosa stesse accadendo, provavo a chiedevo ma mi dicevano solo che si trattava di “operatori di logistica”. Il giorno dopo vidi sui social le immagini dei camion che portavano fuori dalla città le bare. Fu devastante.

Che impressione fa vivere con i propri occhi la tragedia?
Alcune volte un po’ di distacco cinico ti salva, altre volte è impossibile schermarsi. Me li ricordo bene i parenti dei morti di Covid fuori dal cimitero: loro chiusi in macchina con in mano i fiori e fuori le bare che passavano senza nemmeno poter dare ai propri cari l’ultimo saluto. Ancora li devo elaborare bene quei mesi. Spero che il complottismo non cancelli ciò che abbiamo vissuto.

Ci sono tanti inviati in tv, lei cos’ha di diverso dai suoi colleghi?
Avendo un super io giudicante, non punto mai a farmi dire “quanto sei bravo” ma piuttosto “complimenti, ti sei preparato bene”. E se ho un valore aggiunto, è l’empatia.

Di sicuro è tra i pochi capaci di passare da un registro alto ad un racconto pop. Come ci riesce?
L’ho capito sul campo e ascoltando i consigli di chi ne sa più di me: dobbiamo essere funzionali a ciò che va in onda. Una volta che capisci il linguaggio del programma, ti setti sui vari argomenti. Un giorno racconti Sanremo, il giorno dopo la guerra: se sei capace a modulare il registro, puoi fare tutto. Certo, per alcuni questo è un limite.

Perché?
Di recente mi sono sentito dire: ‘Ma come, prima parli della guerra e poi ti metti quelle giacche per i collegamenti dall’Eurovision? Non t’imbarazzi?’. Mi sentirei imbarazzato se andassi allo sbaraglio ma so cos’è un’operazione di Peacekeeping perché l’ho studiato e so anche come funziona il regolamento di Eurovision Song Contest, qual è il problema? Se ti muovi nel perimetro giornalistico, hai più strumenti per decifrare la realtà.

C’è un tema che le piace meno affrontare?
Mi sentirei in imbarazzo a fare la cronaca nera.

Cos’ha capito dell’Italia e degli italiani in questi anni sempre in viaggio?
Ho capito meglio il paese reale e che la provincia è il vero motore dell’Italia: la tv dovrebbe osservarla e raccontarla molto di più. Girando nei paesini con una telecamera capisci anche molto della tv, che l’impatto che ha a Milano e diverso che a Catanzaro. E influenza ancora molto la vita delle persone.

Da anni il suo lavoro è legato a filo doppio con Serena Bortone. Cos’ha imparato da lei?
Lasciai Rai1 per seguirla e andare ad Agorà: gli amici mi dicevano “ma sei matto?”, io invece sentivo che era la scelta giusta. Con lei ho raccontato il terremoto ad Amatrice, il Covid, la guerra, i grandi eventi. C’è una grande sintonia e ho imparato che per risultare inattaccabili bisogna essere capaci di mettersi sempre in discussione.

Sia sincero: non teme di restare imbrigliato nel ruolo di inviato?
Se funzioni fuori, non c’è motivo per provarti in altri contesti. Però considero il lavoro in esterna un background che molti altri non hanno: chi vive eternamente in uno studio tv, ha uno sguardo parziale sulle cose. Se la tv uscisse di più dagli studi, racconterebbe meglio il nostro paese. Dopo dieci anni tra la gente, famosa e non, so che ogni persona che incontri è un romanzo a sé, che ti regala stimoli e prospettive inedite.

Come li capitalizza questi incontri?
Umanamente ho assorbito tanto. E dal punto di vista professionale ho scritto diversi format che nascono da idee e spunti presi dalla strada. Da diversi mesi sono un giornalista interno Rai e siccome credo nella meritocrazia e nella valorizzazione delle risorse interne, spero che uno di questi format prenda presto vita.

Le piacerebbe condurre un programma in studio?
Mi piacciono le sfide, dunque la risposta è scontata: ho in testa un people show che racconti la vita delle persone e mi piacerebbe mettere a disposizione il mio capitale umano per un racconto più fluido, anche in studio.

Tornerà a fare radio su Radio2 Rai?
Radio2 è un’isola felice guidata sapientemente dalla direttrice Marchesini. Anche se per un breve periodo mi sono trovato benissimo e sarei felice di continuare a raccontare questo pazzo paese on-air. Ovviamente fra una valigia e l’altra.