L’ex Ilva continua a inquinare, il Piano ambientale non è stato completato e, anche quando i lavori saranno terminati, bisognerà verificare che siano stati sufficienti a limitare le immissioni in atmosfera. Non basterà quindi neanche attenersi a tutte le prescrizioni Aia per riavere indietro gli impianti di Taranto, ma andrà verificato il loro reale impatto. Anche perché, come già dimostra la recente ripartenza dell’Altoforno 4, all’aumentare della produzione sono corrisposti picchi di inquinamento. Sono riassumibili così le motivazioni che hanno portato la Corte d’Assise di Taranto a respingere la richiesta di dissequestro dell’area a caldo presentata dai legali di Ilva in amministrazione straordinaria. Una decisione che ha avuto come prima ripercussione lo slittamento del passaggio di Acciaierie d’Italia sotto il controllo di Invitalia, con il via libera del ministero dello Sviluppo Economico alla proroga del contratto d’affitto alla newco che vede la società statele accanto ad ArcelorMittal.
Il sequestro? “Serve ancora” – Nelle 9 pagine di ordinanza che Ilfattoquotidiano.it ha avuto modo di leggere, il collegio guidato da Stefania D’Errico – lo stesso che un anno fa emise la sentenza Ambiente Svenduto – spiega perché ritiene “ancora sussistenti ed attuali i presupposti” del sequestro preventivo. Lo “stato degli impianti attuale”, si legge nel testo depositato martedì, non è “in grado, da un lato, di assicurare la sicurezza degli stessi e, dall’altro, di garantire l’avvenuta eliminazione di quelle accertate situazioni di messa in pericolo dell’ambiente e della salute”. Esattamente il contrario di quanto avevano sostenuto i legali di Ilva in As chiedendo il dissequestro del “cuore” dell’acciaieria dopo dieci anni. Una proposta che già il pool di pubblici ministeri composto da Mariano Buccoliero, Raffaele Graziano, Remo Epifani e il procuratore Eugenio Pontassuglia, nel loro parere fornito alla Corte d’assise, avevano bocciato riepilogando tra gli altri elementi gli sforamenti registrati dall’Arpa Puglia fino allo scorso aprile.
“C’è pericolo per la salute pubblica” – Una ricostruzione sposata dal collegio: “Attualmente lo stabilimento – si legge nell’ordinanza – ancora produce immissioni che mettono in pericolo la salute pubblica, situazione che, è ragionevole presumere, non potrebbe essere evitata con la libera disponibilità” degli impianti. La situazione “testimoniata dalle numerose e recentissime note Arpa”, oltre che “dai rilevanti eventi verificatisi nei territori adiacenti lo stabilimento ed in particolare nel quartiere Tamburi”, fanno ritenere ai giudici che la misura cautelare “allo stato dei fatti” sia “ancora idonea ad integrare il requisito della concretezza e dell’attualità”, dato che un eventuale dissequestro dell’area a caldo e una conseguente ripresa produttiva “in assenza di limitazioni e controlli, provocherebbe la perpetrazione ed il consolidamento della grave offesa alla salute collettiva ed alla salubrità dell’ambiente”.
Quel 10% del Piano ambientale che manca – La Corte d’assise si è soffermata a lungo anche sulla “mancata esecuzione” del Piano ambientale, per via del quale “deve dirsi concreto ed attuale il pericolo di ulteriori conseguenze negative in termini di ambiente e salute”. Anche perché come “espressamente rappresentato” dalla stessa Ilva in As nella richiesta di dissequestro, una “parte dei lavori idonei ad eliminare le situazioni di pericolo risulta ancora non realizzata” ed è “plausibile ritenere” che il dissequestro dell’area a caldo “provocherebbe gravissime conseguenze a causa dei rischi rilevanti” che “l’impianto ancora presenta”. Nonostante, come spiegato dai legali di Ilva in As, manchi solo il 10% degli interventi. Ma ad avviso dei giudici va considerato che quella porzione riguarda “interventi importantissimi” e in “aree dello stabilimento che dall’esame dei periti in sede di incidente probatorio sono risultate tra le più inquinanti”. In sostanza, riassume la Corte, “allo stato dei fatti si ritiene che la realizzazione parziale delle prescrizioni Aia non sia idonea a garantire la sicurezza”. La dimostrazione? “La circostanza che, anche in condizioni di fermo sostanziale dell’impianto lo stesso, comunque abbia prodotto emissioni superiori ai limiti di legge, sia verosimilmente conseguenza o di un Piano Ambientale nuovamente erroneo oppure di un’erronea applicazione dello stesso da parte dei gestori dello stabilimento”, riflettono i giudici.
Tutto quello che non è stato fatto – Ma quali sono questi “interventi importantissimi” ancora non eseguiti? La Corte d’assise ricorda “l’assenza delle barriere frangivento” nell’Area Loppa “dalla quale proveniva e proviene tutt’ora lo scarico incontrollato in piena terra delle cosiddette paiole”, con “conseguenze disastrose” per la salute e per l’ambiente. Non solo: il mancato completamento dei lavori nell’Area Agglomerato, “dalle cui linee derivano le emissioni di diossina, che provocavano e continuano a provocare danni incalcolabili alla salute dei lavoratori e dei cittadini”, nonché alla mitilicoltura. E ancora: “Essendo oggetto dei recentissimi rapporti dell’Arpa riguardanti i livelli di benzo(a)pirene nel quartiere Tamburi nell’aprile del 2022, non può non essere inclusa nelle evidenze di mancata attuazione delle prescrizioni l’Area Cokeria, che può essere verosimilmente ritenuta la causa degli elevatissimi livelli riscontrati, in particolar modo dovuti al mancato rifacimento delle batterie 10 e 11″.
L’avviso: “Nessuna garanzia che il Piano basti” – Eppure, anche se tutte le prescrizioni fossero state rispettate, con ogni probabilità la Corte d’Assise non avrebbe dissequestrato l’area a caldo senza ulteriori verifiche. Il perché è spiegato nella parte finale del provvedimento, quando i giudici ricordano che anche un’eventuale realizzazione completa dei lavori ritenuti idonei a risolvere i problemi ambientali del siderurgico “non darebbe alcuna garanzia di certezza sul rendimento non inquinante degli impianti stessi, in considerazione del previsto incremento della produzione”. Una “positiva verifica”, osservano si avrà soltanto quando, terminati i lavori, il siderurgico “sarà portato alla produzione autorizzata e i conseguenti e successivi accertamenti dell’autorità giudiziaria” confermeranno che “effettivamente non è inquinante”. Serve in sostanza una “valutazione in concreto sulla reale utilità” degli ammodernamenti e “sull’idoneità” degli stessi a renderlo “non inquinante”. La verifica ‘sperimentale’, ricordano, allo stato non può neanche essere effettuata poiché l’area a caldo è operativa “a meno della metà della sua forza produttiva”. E sottolineano che l’unica rilevazione possibile, quella riguardante l’Altoforno 4, ripartito dopo il revamping portando con sé un aumento della produzione, ” ha determinato preoccupanti eventi emissivi”. Per i giudici proprio quell’episodio rappresenta una “ulteriore testimonianza dell’attuale e concreta pericolosità” dell’ex Ilva.