Giovanni Tamburino è un magistrato di grande, grandissimo valore. Se la sua azione giudiziaria non fosse stata brutalmente interrotta, la storia d’Italia non sarebbe stata così facilmente nascosta sotto una montagna di bugie.
Egli ebbe in sorte, nel 1973, giovane sostituto alla procura di Padova, di ritrovarsi sulle spalle un’inchiesta delicata e pericolosa, quella sulla Rosa dei Venti. Nome che forse oggi dice poco ai più, in realtà faccenda assai seria. Tamburino si trovò di fronte ad una ‘bestia’ cattiva: trattasi, infatti, di una organizzazione militare che arruolava anche civili e che aveva le sue radici negli organismi sovranazionali. Ovvio che non si volesse lasciar lavorare un magistrato che voleva vederci chiaro e che aveva osato incriminare e arrestare il capo dei servizi segreti Vito Miceli, una mossa che determinò la sua sorte, non dell’indagato ma del magistrato: parte della stampa lo mise ‘in croce’, poi, esattamente il 30 dicembre 1974 ,Tamburino si ritrovò in mano il telegramma che annunciava la sentenza della Cassazione: via l’inchiesta da Padova, se ne occupi Roma.
Diciamolo senza giri di parole: allora fu preso per pazzo, scrissero finanche (Ignazio Cantu su Il settimanale edito da Rusconi) che era ‘eterodiretto’ da Alberto Malagugini, illustre giurista e deputato comunista. È un copione noto: gli anni passano ma il modulo è lo stesso quando un magistrato mette le mani sul potere. Pensate che se Tamburino non fosse stato fermato la storia d’Italia sarebbe cambiata, e non suoni come una valutazione ridondante.
Anni dopo, e dopo una importante carriera in magistratura che lo ha portato fino al vertice dell’Amministrazione penitenziaria (2012-14) e prima ancora a far parte del Csm presieduto da Sandro Pertini, Tamburino fa una scelta interessante: prende carta e penna e ripercorre la sua (ormai) vecchia indagine. Alla luce di tutto ciò che è emerso con il tempo e da altre inchieste che hanno confermato poi le sue valutazioni di allora, Tamburino ci offre una lettura di quei fatti che mette insieme società e giustizia – come dice Peppino Di Lello nel suo Giudici – proponendo un libro importantissimo. Dietro tutte le trame, portato in libreria da Donzelli.
Tra i tanti aspetti su cui Tamburino offre la sua lucida riflessione, troviamo proprio la questione del carattere sovranazionale della struttura scoperta nel ‘73. L’intelligence Usa ne era al corrente ma non fu possibile fare alcun accertamento nella caserma Ederle di Vicenza da dove, di sicuro, entrava e usciva l’ufficiale capo della Rosa dei venti, Amos Spiazzi, nome che risuona non certo solo dentro questa vicenda: il carattere extraterritoriale delle zone occupate dalle forze armate Usa lo impediva tassativamente, stessa sorte toccata poi qualche anno dopo alle inchieste del giudice istruttore Guido Salvini che in parte sviluppano anche le intuizioni e i dati raccolti da Tamburino, molto avanzati per l’epoca. Nel senso che Tamburino aveva capito ciò che non era lecito neanche nominare, cioè l’esistenza di una organizzazione di sicurezza destinata a garantire una determinata collocazione politica del Paese, interna e internazionale, e che agiva con modalità illegali, violente e occulte. La Rosa dei Venti, che alcuni chiamavano Organizzazione di sicurezza, altri SID-parallelo, faceva cose da criminali, “rilevanti sotto il profilo penale”, dice Tamburino con il linguaggio essenziale del giurista: in pratica erano una banda armata nel senso del Codice penale.
Il valore dell’attività del giovane magistrato patavino non poteva sfuggire a chi gestiva il livello strategico della destabilizzazione: non solo quella struttura prefigurava Gladio, ma comprendeva una complessa articolazione che ruotando attorno al Sid includeva organismi paralleli, gerarchie miste di militari e civili, un complesso di sigle di copertura, finanziatori, la rete di neofascisti diffusa sul territorio e infine la massoneria individuata come il laboratorio di gestione politica di tutto questo. Tamburino va anche oltre la figura del materassaio di Arezzo: dopo aver ampiamente attinto notizie dalle carte, individua infatti nella figura di Gianfranco Alliata, finanziatore della strage di Portella delle Ginestre, un uomo chiave della seconda metà del ‘900. Già alla fine degli anni ‘40 e fino alla sua morte al vertice di organismi massonici coinvolti nelle trame del secolo trascorso Alliata, estimatore di Gelli nella cui loggia confluì, creò una rete massonica e para-massonica destinata ad essere futuro oggetto di studi e forse nuove rivelazioni.
Siamo sicuri che Tamburino, persona elegante e raffinata, scrivendo questo libro non abbia voluto affatto prendersi una rivincita – e pure ne avrebbe di che… No, Tamburino, oggi al Consiglio direttivo dell’Archivio Flamigni, è invece mosso dalla urgenza di dare un senso alla nostra storia – perché quella ufficiale un senso non ce l’ha – di rappresentare il nostro Paese dentro i fatti reali, gli unici che possono farci leggere la nostra storia e il nostro presente, uscendo da retoriche alimentate da anni di politiche indifferenti alla materia.
Con questo libro si fa un bel passo in avanti. Peppino De Lutiis, suo amico ed estimatore, diceva sempre che non bisognava rammaricarsi per come era stata chiusa l’inchiesta padovana: “Se non lo avessero fatto, Giovanni sarebbe stato di sicuro ammazzato”, quindi, in un pensiero a Peppino, va bene così.