Dal terrore atomico a quello per una Terza Guerra Mondiale combattuta in Europa, dalle immagini dei crimini di guerra che hanno fatto il giro del mondo alla ‘terra promessa’ dei filo-russi ucraini, il Donbass, fino al ruolo della Nato e del gas. A cento giorni dallo scoppio della guerra in Ucraina, innescato dall’invasione del 24 febbraio ordinata da Vladimir Putin, la terminologia del conflitto è stata man mano caratterizzata da parole fino a quel momento sconosciute e da altre che ritroviamo costantemente in ogni teatro, ma che hanno ricoperto un ruolo cruciale nel racconto delle ostilità alle porte dell’Europa. Ecco quindi un alfabeto del conflitto, senza alcuna pretesa di completezza.

Atomica – Il grande spettro di questa guerra. Per la prima volta dall’esercitazione Nato del 1983, il mondo ha riscoperto il rischio di una guerra atomica quando Vladimir Putin ha deciso di attivare il sistema di deterrenza nucleare al confine con l’Ucraina dopo appena quattro giorni di conflitto. I timori, però, non riguardano solo l’uso di armi atomiche strategiche che provocherebbero un conflitto su larga scala, ma anche delle cosiddette armi nucleari tattiche, ordigni dal raggio d’azione limitato in grado però di sprigionare una potenza capace di radere al suolo tutto ciò che rientra nella loro area d’azione, con conseguenze a lungo termine non ancora conosciute.

Bayraktar – In loro onore i combattenti ucraini hanno inventato anche dei cori da stadio. Si tratta dei famigerati droni di produzione turca ceduti all’esercito di Kiev. Il loro ruolo nello svolgimento del conflitto, soprattutto nella prima parte, è stato fondamentale: hanno permesso ai militari di Zelensky non solo di localizzare e monitorare le truppe russe, ma anche di sferrare pesanti attacchi che hanno causato un altissimo numero di perdite, sia di soldati che di mezzi, favorendo così la difesa di città e avamposti strategici, compresa la capitale del Paese.

Chernobyl – Il disastro nucleare del 1986 è tornato come uno spettro nella mente di tutta Europa. Mentre Putin minacciava l’uso di armi atomiche, l’altro grande rischio era rappresentato dai combattimenti intorno al vecchio stabilimento, dove si conserva ancora materiale radioattivo. L’occupazione di quel territorio da parte dei russi e gli scontri che si sono verificati, con tanto di lancio di razzi, intorno alla struttura hanno fatto temere per un nuovo incidente nucleare.

Denazificazione – È questo il neologismo uscito per la prima volta dalla bocca di Vladimir Putin e usato per giustificare la sua guerra. A sostegno della tesi secondo la quale a Kiev sta governando un governo nazista, il presidente russo ha usato l’immagine del famigerato battaglione Azov, integrato nell’esercito per combattere Mosca e al cui interno si trovano simpatizzanti filo-fascisti e filo-nazisti. Ma non bastano poche migliaia di elementi per giustificare la “denazificazione” di un Paese da 44 milioni di abitanti.

Escalation – In soli cento giorni, il conflitto ha conosciuto un’intensificazione rapidissima. Si è passati dallo spostamento di truppe russe al confine, con Mosca che negava qualsiasi volontà di intervenire militarmente, all’invasione del Donbass. Quando tutto sembrava limitato all’area orientale del Paese, i mezzi di Mosca hanno preso campo andando a insidiare i territori al confine con la Bielorussia, quelli intorno a Kiev e gran parte del Sud, unico sbocco sul mare del Paese. Oltre a quella militare, si è però assistito anche a una veloce escalation diplomatica, con minacce di ritorsioni sia da parte della Russia che del blocco Nato, ipotesi di guerra su scala globale, accuse di genocidio e crimini di guerra, sanzioni e la definitiva chiusura di qualsiasi strada negoziale.

Fosse comuni – Dopo il genocidio di Srebrenica era impensabile assistere a nuovi massacri indiscriminati nel cuore dell’Europa. Scene macabre ormai considerate un problema esclusivo dei Paesi più instabili di Africa e Medio Oriente. Ma le immagini arrivate da Bucha, e non solo, con fosse comuni, civili giustiziati con un colpo di pistola alla nuca, le mani legate dietro la schiena e segni di torture sul corpo hanno riportato la memoria collettiva ai massacri nell’ex Jugoslavia, alle carneficine africane e alle esecuzioni di massa dello Stato Islamico in Siria e Iraq.

Gas – Il grande ricatto in mano a Vladimir Putin e allo stesso tempo l’arma in mano all’Europa, ma che Bruxelles non può usare. Il gas è la risorsa che più di tutte le altre potrebbe spostare gli equilibri del conflitto e forse far cessare le ostilità. Ma se il leader russo non può permettersi di perdere il mercato europeo, incapace di differenziare le esportazioni che al momento sono la prima fonte di finanziamento del conflitto, anche i Paesi Ue sono troppo dipendenti dal gas russo e così non possono applicare sanzioni. È così che la grande risorsa russa è fino ad oggi rimasta l’asso nella manica non sfruttato dai due blocchi contrapposti.

Helsinki – Dopo la Russia e l’Ucraina, i Paesi che hanno stravolto maggiormente la loro politica estera dal 24 febbraio ad oggi sono proprio Svezia e Finlandia. Impauriti dal passo in avanti di Putin, hanno entrambi deciso di abbandonare la loro storica neutralità per chiedere la protezione della Nato. Una richiesta che, ad oggi, ha trovato sulla sua strada un grande ostacolo chiamato Turchia.

Indipendenza – È partito tutto da qui, dalle regioni a est dell’Ucraina che dal 2014 hanno proclamato unilateralmente la propria indipendenza da Kiev e dove in questi otto anni non si è mai smesso di combattere. È questo il principale obiettivo dichiarato da Vladimir Putin: riunire tutto il Donbass e annetterlo alla Federazione, o comunque staccarlo definitivamente dal controllo del governo ucraino. Un risultato senza il quale, sembra, il capo del Cremlino non ha alcuna intenzione di mettere a tacere le armi. Ma dopo l’invasione su larga scala, in ballo adesso è anche l’indipendenza dell’Ucraina.

Lavrov – Doveva essere la faccia diplomatica di Putin, in realtà in più di un’occasione ha costretto il Cremlino a una marcia indietro rispetto alle sue dichiarazioni. Non ultime quelle rilasciate in un’intervista esclusiva a Rete4, dove è arrivato a definire “gli ebrei i primi antisemiti”, in riferimento alle origini ebraiche di Zelensky.

Mariupol – È la città martire, piegata dopo settimane di assedio ininterrotto delle forze di Mosca. Una città che ha registrato uno tra i più alti numeri di vittime civili, rasa al suolo per gran parte della sua estensione, che ha conosciuto un assedio che rischiava di trasformarsi in crisi umanitaria, quello alle acciaierie Azovstal. E oggi, lì, i russi hanno il pieno controllo e hanno iniziato a sostituire le istituzioni controllate da Kiev con altre che fanno capo a Mosca.

Nato – Tanto quanto il governo ucraino, se non addirittura di più, era proprio l’Alleanza l’obiettivo di Vladimir Putin. Scatenare una guerra ai suoi confini, nei suoi piani, avrebbe provocato un terremoto interno al Patto tale da disgregarlo. Invece la reazione degli Stati membri è stata compatta, si sono riavvicinati come mai si era visto nei decenni scorsi, con il blocco atlantista trasformatosi da organismo considerato moribondo e obsoleto in uno attrattivo anche per Paesi che, fino a quel momento, avevano evitato di entrare a farne parte.

Obici – Sono uno dei sistemi d’arma che più di altri caratterizzano questo conflitto. Insieme ai droni e ai lanciarazzi, sono questi i mezzi più richiesti da Kiev all’Occidente e quelli più utilizzati anche dai russi, insieme ai carri armati, per bombardare le postazioni ucraine.

Putin – Si è parlato dell’atteggiamento spregiudicato della Nato, dei soprusi commessi dai battaglioni ucraini in Donbass negli ultimi 8 anni, dell’atteggiamento aggressivo di Usa e Gran Bretagna nei confronti di Mosca. Ma il vero artefice del disastro ucraino rimane Vladimir Putin: colui che ha iniziato una guerra nonostante si dichiarasse non intenzionato a invadere, colui che più di tutti ha alzato il livello dello scontro e che, ancora oggi, tiene tra le sue mani l’orologio del conflitto. Sarà lui a decidere quando sarà il momento di fermarsi e permettere, così, l’apertura di un tavolo di pace.

Quotidiani – C’è una guerra combattuta in campo militare, un’altra in campo diplomatico, ma ce n’è anche una terza che viene combattuta con la comunicazione. Sui social, certo, ma anche sulla stampa. Soprattutto quella italiana, dove si è assistito alla rapida formazione di due fronti contrapposti: coloro che difendono a spada tratta le posizioni della Nato e quelli che, invece, chiedono di mettere sul piatto della bilancia le responsabilità di tutte le parti coinvolte. Il risultato: più tifo che analisi obiettiva.

Resistenza – La difesa degli ucraini è stata da molti paragonata alla resistenza italiana contro l’invasore nazista nella Seconda Guerra Mondiale. C’è chi lo trova un paragone azzardato, chi invece usa il parallelo per spiegare l’importanza dell’invio di armi all’esercito di Zelensky.

Scholz – Al primo anno da cancelliere dopo l’era Merkel, il capo del governo tedesco a trazione socialista si è trovato ad affrontare una delle sfide più importanti nella storia recente del suo Paese, forse quello più legato a Mosca tra i grandi dell’Ue. Da una parte aveva le pressioni di Usa e Gran Bretagna che lo spingevano a tenere un atteggiamento intransigente nei confronti di Mosca, dall’altro il realismo macroniano che invece chiede di non rompere i ponti col vicino russo. Sembra aver scelto la seconda strada, ma guardando i sondaggi, che lo vedono in forte calo, sta pagando più di tutti il protrarsi del conflitto.

Terza Guerra Mondiale – Il rischio di un conflitto globale era chiaro a tutti fin dall’inizio. Un intervento Nato in Ucraina lo avrebbe reso inevitabile, così come un’incursione russa in un Paese dell’Alleanza. È l’extrema ratio che tutti vogliono evitare, ma che non può essere esclusa. Lo ha detto anche il presidente Joe Biden, portando per primo il tema nel dibattito internazionale. C’è chi lo ha tacciato di imprudenza e spregiudicatezza, ma il rischio è reale.

Usa – Fin dall’inizio è stato il Paese che ha assunto l’atteggiamento più aggressivo, insieme al Regno Unito, nei confronti della Russia. Posizione più semplice da tenere rispetto ai partner europei per ovvi motivi geografici, ma anche economici. Pesanti sanzioni sull’energia russa porterebbero l’Europa a sbilanciarsi inevitabilmente sull’atlantico anche in questo campo. La tensione con Mosca ha raggiunto i massimi storici, ma solo Washington, forse quanto Mosca, ha il potere di favorire i colloqui di pace. Putin considera infatti Biden il suo principale interlocutore.

Von der Leyen – La presidente della Commissione ha il compito di rappresentare l’Unione europea e garantirne l’unità in un momento in cui gli interessi nazionali, sia economici che geopolitici, rischiano di prevalere. Lo ha fatto con risultati alterni. È riuscita a garantire l’unità sui primi cinque pacchetti di sanzioni, ma la discussione sul sesto ha mostrato le prime pesanti crepe di un’Ue paralizzata dal diritto di veto in sede di Consiglio. Inoltre, la capa di palazzo Berlaymont non è riuscita a uniformare la posizione delle istituzioni Ue a quella dei tre principali Paesi (Francia, Germania e Italia) che chiedono più diplomazia nei rapporti con la Federazione.

‘Z’ e Zelensky – Zeta come il simbolo dipinto su tutti i mezzi russi in segno di vittoria. Zeta come l’iniziale di Zelensky. I due estremi di questo conflitto. Da una parte il principale simbolo dell’invasione russa dell’Ucraina, dall’altra colui che il Paese ha deciso di difenderlo fino all’ultimo e che ha conosciuto la trasformazione più radicale nell’arco di questi 100 giorni. Fu una parte dell’Europa che oggi lo sostiene a dubitare di lui quando venne eletto: un ex comico diventato presidente di una Nazione. Da uomo di spettacolo, però, questo conflitto lo ha trasformato presto in patriota e combattente. Soprattutto da quando ha rinunciato all’esfiltrazione offerta da Washington per rimanere in una Kiev col nemico alle porte. La sua mimetica verde è diventata un marchio che, nel bene o nel male, lo consegnerà alla storia del suo Paese.

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