Sentivamo proprio tutta questa nostalgia per un nuovo capitolo della saga Jurassic Park? Dopo una prima trilogia anni novanta, discendente dal capolavoro di genere al noioso flop, e poi nella reprise nel nuovo millennio con nuovi cast e rettili diretti dalla regia smussando la truculenza dei morsi per attirare più famiglie in sala, la Universal promette dalla locandina testuali parole: “L’epica conclusione della dell’era giurassica”. Quindi più che nostalgia c’è l’elemento ‘dinosauri’ che ha sempre affascinato lo spettatore sia la per la riscoperta di una natura antichissima ed estinta, sia per il brivido al pensiero che gigantesche e misteriose creature portino sconquasso al nostro mondo. Steven Spielberg come regista fece bingo. Ora per Jurassic Word – Il dominio, nei cinema dal 2 giugno, fa ‘solo’ il produttore esecutivo, e Colin Trevorrow, che nel primo capitolo ci aveva alla fin fine intrattenuto decorosamente, torna dietro la macchina da presa con poche idee.
Siamo in una distopia vera e propria dove il mondo deve abituarsi alla convivenza con i dinosauri fuggiti dal loro zoo-laboratorio ormai distrutto di Isla Nublar. L’idea di ambiente e catene alimentari in subbuglio per un mondo popolato da animali di ieri e di oggi risulterebbe pure intrigante, ma si sviluppa con deludente superficialità. Chris Pratt gigioneggia ancora nei panni dell’addestratore di sauri con il magnetismo di sempre esercitato anche sul pubblico femminile. Mentre noi a Roma ci preoccupiamo per i cinghiali, stavolta Pratt sfoggia un look da Marlboro Country, camicia di flanella a quadri e inseguimenti a cavallo tra le nevi per catturare al lazzo rettiloni, o, in summer version, per sfuggire dai raptor attraverso Valletta e mezza Malta (ebbene sì, ambientazioni anche mediterranee stavolta). In più, miriadi di situazioni oltre ogni limite di rischio, ma ovviamente a buon fine.
Sono troppe le battutine con la sua partner Bryce Dallas Howard, ottima attrice e interessante regista appena sbocciata, oramai incastonata in questo ruolo da donnina tutta casa e attenzione ai dinosauri. Per fortuna che spesso la inseguono. Il suo è un talento sprecato qui, se si guarda anche oltre i tornaconti economici. Pratt fa l’eroe mascolino e alfa, pure bene, come sempre, e il dinamismo del suo personaggio ne vale la presenza per un entertainment piuttosto machista. Quanti inutili dialoghi in queste 2 ore e 20 di avventure anabolizzate in un franchise duro a finire. Regia e sceneggiatura si perdono in diluzioni continue anche se dal passato torna di nuovo Jeff Goldblum col suo fantastico filosofo, mentre i nuovi grandi rientri dal film originale sono proprio la biologa di Laura Dern e il paleontologo di Sam Neill, i protagonisti del primo importantissimo Jurassic Park di Spielberg. Avere tutti i protagonisti di ieri e di oggi nelle stese inquadrature doveva essere più emozionante. Invece no, tanta noia, e nostalgia estinta per qualsiasi dinosauro.
Dai vecchi dinosauri stoicamente ringiovaniti per il mercato globale dei franchise, passiamo ad autori che maturando ringiovaniscono. Il monumentale Clint Eastwood ha compiuto da poco 92 anni, Marco Bellocchio a 82 è in sala con un film/serie poderoso mentre già prepara il prossimo set, e Mario Martone a 62 anni è tornato in sala trasformando il romanzo postumo di Ermanno Rea nell’omonimo film Nostalgia. In realtà non è anziano, ma autore maturo Martone, e solitamente a quel punto di vita e carriera si rischia sempre di ripetersi in maniera scolorita. Ma lui alterna il cinema a direzioni teatrali, operistiche e televisive abbracciando sempre progetti che sgommano via dai precedenti. La sua operazione (non) Nostalgia riguarda il Quartiere Sanità, più che Napoli. Un micromondo a sé nel quale arriva un omone serio e solitario dall’Egitto. Felice, volto e classe di Pierfrancesco Favino, ha vissuto in Africa per 40 anni senza mai tornare prima. Il suo sguardo sembra quello del Totò/Jacques Perrin di Nuovo Cinema Paradiso al suo ritorno in Sicilia da adulto. Ma Felice ha un passato oscuro che lentamente scopriremo in un dedalo di vicoli e memorie ritrovate intorno a flash di ricordi adolescenziali.
Il lavoro di Favino è enorme nel restituirci l’accento estero di questo zio d’America, anzi d’Africa, col tempo sempre più partenopeo. Tocca sottilmente note emotive profondissime soprattutto in coppia con Aurora Quattrocchi, attrice meravigliosa e commovente che nella scena del bagno alla madre anziana e quasi cieca compone una Pietà michelangiolesca al contrario: il figlio si cura della madre prendendola in braccio. Il prete di quartiere impegnato contro la Camorra di Francesco Di Leva invece ci stringe forte la coscienza sulla legalità e, potremmo dire, sulla pace urbana che sta alla base di quella globale. Mentre il boss di Tommaso Ragno, legato in passato a Felice, la coscienza ce la scuote come un serpente a sonagli.
“La nostalgia non è rimpianto”. Ha sottolineato Martone domenica al Cinema Troisi durante un incontro con il pubblico romano. La sua capacità di guardare al passato con lucida onestà intellettuale si è sposata perfettamente al romanzo postumo di Rea grazie anche a un’attentissima lavorazione quasi da Nouvelle Vague ad opera del direttore della fotografia Paolo Carnera. A Cannes avrebbe meritato premi, ma dopo una settimana di box office, Nostalgia è terzo solo dopo i blockbuster americani Top Gun e Doctor Strange, mettendosi alle spalle l’Esterno Notte di Bellocchio. Questi nostri ringiovaniti dinosauri ci piacciono proprio tanto.