Il 24 febbraio Vladimir Putin fece una scommessa: in nessuno scenario bellico il mondo avrebbe offerto un aiuto concreto ed efficace all’Ucraina, un Paese apparentemente lontano dagli interessi dell’occidente e con una popolazione e una classe dirigente che non avevano niente a che spartire con quelle dei Paesi della Nato. Come nel biennio 1938-1939, quando nessuno volle morire per Praga o Danzica, così nel 2022 nessuno avrebbe voluto – secondo il Cremlino – correre il rischio di sfidare la Russia per Kiev. Gli è andata male, come sappiamo tutti. Ma la domanda da cui era partito – cioè se c’è una città “straniera” per cui abbia senso perdere la vita – rimane, anzi adesso lo riguarda proprio da vicino. Fra i suoi stessi soldati e ufficiali, secondo quanto si può leggere negli smartphone abbandonati sui campi di battaglia o nelle conversazioni intercettate, serpeggia proprio questa domanda: perché morire per un obiettivo né simbolico né glorioso come Severodonetsk? La città – chi la percorre su tank e camion in questi giorni se ne accorge bene – non ha alcuna utilità logistica né come snodo ferroviario né per essere su un importante asse stradale: è solo una cittadina di medie dimensioni – prima della guerra aveva più o meno la popolazione di Novara, Terni o Vicenza – posta a pochi chilometri da un altro cento urbano, quasi gemello, di nome Lysychansk (prima del 24 febbraio con lo stesso numero di residenti di Arezzo o Cesena).

Le due aree urbane occupano una superficie – al netto della campagna – di circa trenta chilometri quadri e sono separate dal fiume Siversky Donetsk, noto a causa delle frequenti stragi di truppe russe nel tentativo di passare da una sponda all’altra poco più a nord. Le truppe ucraine si stanno assestando sul lato occidentale del fiume, per approfittare del vantaggio dato – sia in fase offensiva sia difensiva – da 20-30 metri di dislivello, ma soprattutto per costringere i russi a scoprirsi nell’attraversamento. Per il momento, le migliaia di difensori ucraini presenti in loco preferiscono restare coperti e non scomporsi nel tentativo di ripiegare verso ovest: sarebbe quasi impossibile arrivare ordinatamente – e incolumi – in una ritirata tattica lunga quasi trenta chilometri, sotto una pioggia di bombe prodotta dall’artiglieria di Putin.

Va detto che – se riforniti in qualche modo – potrebbero arretrare gradualmente di almeno dieci chilometri: ma per farlo, lascerebbero troppo agevolmente il campo ai russi. Per chi non lo avesse capito, in attesa dell’arrivo di armi capaci di colpire le basi russe dalla media distanza, l’obiettivo degli Ucraini è… tenere duro e causare quante più perdite possibili al nemico. Se è vero che vogliono riportare la pelle sana e salva a casa, è altrettanto vero che puntano ad arrecare il maggior danno possibile ai russi. L’obiettivo di questi ultimi, infatti, è prima di tutto quello di prendere centri abitati, insomma cacciarsi in nuove e devastanti battaglie urbane dopo quelle di Mariupol, Bucha e Hostomel. È vero che lo fanno dopo aver raso al suolo fabbriche, palazzi e abitazioni, ma devono pur sempre esporsi per passare fra le macerie. Rovine e edifici abbattuti sono il terreno ideale per gli agguati dei difensori. Non a caso Mosca sta subendo – come Kiev, che lo ammette – oltre 100 perdite al giorno in questa piccola regione.

Così, arriviamo al quesito iniziale: che senso ha morire per Severodonetsk? Beh, in effetti se ne ha poco per Ivan Ivanov, che è come dire il Mario Bianchi russo, ne ha molto per il Cremlino: con lo sforzo sul campo al suo culmine e preoccupanti segnali di carenza di mezzi e morale, ogni avanzamento porta Mosca più vicina alla convenienza tattica – e politica – di discutere una tregua con Kiev. Intendiamoci, non una pace vera: il Cremlino vorrebbe solo intavolare discussioni senza sfondo e costringere alla fine la leadership ucraina a far saltare il tavolo. Quello di cui Putin ha disperatamente bisogno sono 6-9 mesi per allentare la pressione internazionale, ottenere più agevolmente rifornimenti dalla Cina, rimettere ordine fra le forze armate e ricominciare la guerra dopo l’inverno 2022-23, da una posizione di vantaggio e magari col fronte interno ucraino e quello internazionale meno attenti e determinati. Gli servirà anche un nuovo generale, perché di Alexander Dvornikov, come fatto notare da chi scrive su Difesa Online e come scritto oggi anche dal New York Times, si sono perse le tracce. In fondo, dal punto di vista di Putin, in quasi due mesi non ha fatto vedere nessun miglioramento: ha solo impiegato un tempo infinito per raggiungere un obiettivo piccolo piccolo: Severodonetsk, appunto.

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Precedente

‘A’ come atomica, ‘Z’ come Zelensky e vittoria: ecco l’alfabeto della guerra in Ucraina dopo cento giorni di conflitto

next
Articolo Successivo

Italia vs Australia, due scuole agli antipodi. Le ho messe a confronto, ecco che lezioni trarre

next