“Perché pur avendo una piccola impresa con dieci dipendenti, non riesco ad avere la piena partecipazione e motivazione di tutti i collaboratori per farla funzionare?”, una delle domande più frequenti che mi vengono rivolte quando inizio un processo di riorganizzazione in una PMI.
Una delle cause è l’eccesso di leadership istituzionale. Una piccola impresa può morire per eccesso di comando. Si tratta di un problema legato alla interpretazione del termine “leadership” che molti piccoli imprenditori travisano anche perché confusi dai fuffa-guru che hanno un forte ascendente su di loro. Se, infatti, nell’interpretazione più elementare e letterale, leadership significa “capacità di comando delle persone”, un’azienda di piccole dimensioni che spinga al massimo l’acceleratore della leadership senza accortezza rischia di avere poche persone che comandano senza capacità e molte persone che eseguono con inutilizzate skills da leader.
Le organizzazioni, soprattutto quelle in cui la linea gerarchica è molto appiattita, hanno invece bisogno di molti bravi “comandanti” che, nello stesso tempo, agiscono, operano, fanno. Esaminando la situazione delle attuali PMI, il rapporto capi/dipendenti è intorno al 10-15% considerando nella categoria “capi” l’imprenditore e i suoi familiari. Quindi se leadership è la capacità di comandare, lo sforzo di crearla, svilupparla e mantenerla nelle piccole imprese appartiene solo e soltanto a una minoranza, spesso identificata come tale solo per effetto di uno stato di famiglia. Se invece nelle piccole imprese si deve parlare della leadership in senso più lato è perché, nel tempo, la sua interpretazione è andata cambiando. Se oggi la leadership è manifestazione di energia, di entusiasmo, di grinta decisionale, di calore umano; se è ricorso alla forza dell’esempio, alla propria autorevolezza prescindendo dalla autorità istituzionale, all’ascendente personale; se per leadership intendiamo la capacità di convincere gli altri (non necessariamente sottoposti) a fare cose che non farebbero altrimenti, allora nelle piccole imprese non è necessario essere “capo istituzionale” per manifestare questi aspetti: tutti possono in tal modo esercitare “leadership”.
Viene pertanto a cadere la classica (e nefanda) dicotomia tayloristica, ancora molto presente nelle PMI, del “chi comanda e chi esegue”, come anche il principio “capi si nasce (semmai solo per effetto del cognome che si porta) e non si diventa”, sostituito dalla ormai diffusa convinzione che la “leadership” non è un diritto successorio e si sviluppa anche in chi non ha la stellina sulla giacca. Nella misura in cui anche il semplice operaio o impiegato di ufficio, operando all’interno di ristretti gruppi di lavoro interfunzionali e interdisciplinari, deve interagire con altri, deve dare e ottenere collaborazione, deve convincere il collega ad agire per raggiungere insieme un obiettivo ricevuto, anche per essi vale la necessità di possedere una buona dose di leadership; non quella canonica, letterale ma quella concreta qui esemplificata. Spetta all’imprenditore sollecitare l’esercizio di una leadership diffusa e democratica realizzata attraverso una strategia di gestione delle risorse umane trasversale e flessibile.
Allora (forse) non ci sarà più bisogno di una gerarchia istituzionalizzata o per lo meno di una gerarchia autoritaria sostanzialmente preposta a comandare. Il comando verrà sostituito dallo spirito di collaborazione e dal senso di essere squadra. Ma fino a quando ciò non sarà veramente in atto (e raramente oggi lo è), il concetto di efficienza complessiva e di coinvolgimento delle poche risorse umane a disposizione continuerà a rappresentare un dubbio che può essere letale.