“Gli utilizzatori di social media sono cresciuti rispetto all’anno precedente di oltre il 10%, raggiungendo i 4,62 miliardi di persone, circa il 58,4% della popolazione mondiale, oltre il 71% di quella italiana e il 93,4% degli utenti Internet”. Sono dati impressionanti quelli contenuti nel rapporto pubblicato su We are the social che rendono molto chiaro il peso stratosferico che questi sistemi di comunicazione che si denominano Google, Facebook, Twitter, Youtube, Instagram e via andare, hanno acquisito nell’economia e nella nostra vita di tutti i giorni.
Quando sorsero le prime piattaforme social tra la fine del secolo scorso e i primi anni di questo, molti pensavano che finalmente la democrazia fosse penetrata nel mondo dei media, dominato dalle grandi concentrazioni lobbistiche dei network televisivi e giornalistici; ricordiamo le speranze accese dal popolo connesso nelle piazze d’Africa. Mai nessuno avremmo potuto immaginare che in pochi anni questi giganti avrebbero conquistato le posizioni oligopolistiche dominanti, in un mondo dell’informazione completamente stravolto.
Noi utenti e attivisti dei social media ci siamo per un po’ illusi di essere padroni di quegli spazi potendo pubblicare ciò che pensavamo gratis e in libertà, certo stando attenti a non violare le regole dell’educazione, a non essere volgari o pubblicare immagini sconvenienti. Invece col tempo l’abuso da parte di disparati propagatori di fake news e di immagini razziste, violente o volgari ha preso il sopravvento, inquinando la rete con le proprie nefandezze al punto che tale che -come esempio clamoroso – Twitter ha dovuto escludere nientemeno che il Presidente degli Usa, Donald Trump, in quanto istigatore d’odio. Anche Facebook è stata sottoposta a dure critiche nel tempo ma direi soprattutto per l’attitudine del vulcanico Zuckerberg a pagare le tasse il meno possibile, attitudine alquanto diffusa tra i possessori di ingenti capitali. Chi però non propaga fake o pubblica immagini pornografiche non dovrebbe avere niente da temere, o almeno è quello che ho pensato fino a pochi giorni fa. Mi sbagliavo e vi racconto perché.
Essendo un attivista social, anche se matusa, sono molto impegnato a sostenere le cause dei diritti umani e in genere dei più deboli. Così alcuni giorni fa sulla mia pagina personale di Facebook, ho rilanciato l’appello che sta girando parecchio contro il genocidio del popolo Yanomani dell’Amazzonia. Per rafforzare il messaggio ho allegato alcune foto della splendida mostra Amazzonia di Gabriel Salgado, in corso al MAXXI di Roma che avevo visitato, immagini straordinarie di sterminati e suggestivi panorami e delle tribù amazzoniche a rischio estinzione, una parte delle quali esponevano nudi, naturalmente tutt’altro che trasgressivi o ammiccanti, bensì rappresentazioni di persone intente nelle loro attività quotidiane.
A quel punto mi vedo recapitare un messaggio dall’amministrazione di Facebook che mi segnala una violazione di carattere sessuale e m’informa che – poiché avevo già incamerato un “warning” ovvero la sanzione del cancellazione di un mio post, una violazione di cui ignoravo totalmente l’esistenza e la ragione – mi veniva “comminata” una sanzione cumulativa, consistente nella sospensione di due giorni dalla condivisione dei miei post nei gruppi con cui sono collegato e un “declassamento” nel feed, ovvero nel posizionamento di visibilità addirittura per un mese!
Sbalordito da questa severa e incomprensibile comunicazione vado a cercare la precedente violazione e scopro che, nientemeno, riguardava un post in cui nell’agosto scorso, nei giorni dell’abbandono dell’Afghanistan da parte delle truppe Nato con tutte le note tragiche conseguenze, avevo riepilogato sulla mia pagina la cronologia degli avvenimenti più importanti dall’origine della storia afghana recente.
Turbato da questa imprevedibile vicenda, cerco la possibilità di comunicare con l’amministrazione di Facebook, utilizzando le scarne e quasi introvabili modalità per segnalare il problema, modalità al limite del surreale (scuotimento del telefono), messaggio ad un indirizzo assolutamente anonimo, a cui comunque scrivo per chiedere ragione di queste valutazioni per me assolutamente imperscrutabili. Non succede niente per quattro giorni, dopo di che, mi arrivano tre messaggi che – in risposta alle mie osservazioni – mi scrivono testualmente:
Ieri alle 17:13
Al momento non è possibile controllare di nuovo il tuo post
Da quando hai richiesto un controllo, molte persone e organizzazioni di tutto il mondo sono state colpite dalla pandemia di coronavirus (COVID-19). Anche Facebook ne ha risentito. Abbiamo a disposizione un numero ridotto di persone per il controllo delle segnalazioni. Per questo motivo, al momento non siamo in grado di controllare i contenuti più di una volta. Poiché non riusciamo a controllare di nuovo il tuo post, non possiamo cambiare la nostra decisione.
Prevediamo di eseguire presto nuovi controlli.
Grazie per la comprensione.
Quindi ricapitolando: Facebook l’8 settembre del 2021 sanziona, eliminandolo, un mio post del 15 agosto che riepiloga la cronologia delle guerre in Afghanistan, con la motivazione che non rispettava gli standard della community! Quali siano gli standard violati non è dato saperlo.
Sulla base di questa prima sanzione, domenica 29 maggio 2022, dopo sette mesi, interviene sul mio post riguardante un appello per la salvezza del popolo amazzonico, contenente delle foto tratte dalla mostra “Amazzonia di Gabriel Salgado”, perché alcune di queste non rispettavano gli standard della community in materia di nudo o attività sessuali. Elimina alcune foto incriminate e mi commina una sanzione molto grave, la degradazione della mia posizione di visibilità per un mese.
Io contesto la violazione secondo le procedure indicate e mi rispondono che causa covid, per ragioni di limitatezza del personale non possono controllare i post quindi mi devo tenere la sanzione.
Insomma, forse se avessi messo un post di quelli a pagamento con qualche donnina seminuda adescante che dilagano su Facebook, allora nessuno mi avrebbe sanzionato. Occorre ripensare seriamente a queste invadenti e ingombranti imprese digitali di cui siamo diventati nostro malgrado dipendenti e vittime.