L’uomo si è sempre interrogato sul futuro. A volte, come nel caso del marxismo, si è anche convinto di aver individuato le ineluttabili leggi del divenire storico in grado di spiegare il radioso destino a cui l’umanità sarebbe necessariamente chiamata. Attualmente, il “domani” è atteso con speranza, o indagato con preoccupazione, a seconda della visuale da cui lo si scruta.
Ci sono quelli convinti che una feconda cooperazione sempre più stretta fra gli Stati, con il contributo decisivo della scienza e della tecnologia, non potrà che aprirci sviluppi favorevoli. Ciò condurrà – se non alle “magnifiche sorti e progressive” di leopardiana memoria – quantomeno a un sensibile miglioramento delle condizioni globali. Costoro, pertanto, ripongono grandi aspettative nelle varie “agende” partorite da organizzazioni come l’Onu o da associazioni private come il World Economic Forum. Secondo quest’approccio, non bisogna aver paura del futuro, ma semmai della “paura” stessa. E chiunque – lungi dal condividere tale rassicurante visione degli anni a venire – denuncia il rischio di derive distopiche, viene guardato con sospetto. Peggio: chi paventa l’avvento di un nuovo modello di convivenza sociale informato a una logica trans-umana, o addirittura anti-umana, è all’istante etichettato con ben noti, e screditanti, epiteti.
Vi è da chiedersi, allora, se non vi possa essere una prospettiva differente, un diverso modo di accostarsi all’argomento. Insomma una maniera, per così dire, “neutrale” in grado di muoversi al di fuori degli schemi sopra descritti: quello della fiducia nel futuro per partito preso (dell’andrà tutto bene, diciamo) e quello dei vaticinii apocalittici (dell’è già tutto scritto, per capirci). In questa operazione, può forse aiutarci uno storico israeliano – per certi versi, un “futurologo” – assolutamente ben visto dal cosiddetto mainstream. Ci riferiamo a Yuval Noah Harari, definito, in un articolo pubblicato su Repubblica.it nel 2020 “uno degli intellettuali più seguiti del pianeta”. Una voce, quindi, non facilmente archiviabile nel novero dei famigerati cospirazionisti.
In un suo libro del 2015, Homo Deus. Breve storia del futuro, il nostro si cimenta nel tentativo di immaginare dove si stia effettivamente dirigendo il mondo. E lo fa tenendosi ben lontano sia dalla politica degli “auspici” sia da quella degli “anatemi”. In altri termini, ad Harari non interessa comunicarci ciò che lui desidera per il futuro dell’uomo, come fanno invece molte agenzie internazionali e diversi sedicenti (nonché multimiliardari) filantropi. E neppure intende spaventarci. Gli importa, piuttosto, comprendere (e far comprendere) quale sia l’avvenire più “probabile” sulla base dei recenti sviluppi scientifici e tecnologici.
Ebbene, Harari ritiene che sia alle viste una “rivoluzione copernicana” del modo in cui tradizionalmente è inteso l’essere umano. Il quale non sarà più da considerarsi (e non sarà più visto come) un “individuo” dotato di libero arbitrio (in base al più classica approccio “umanista”), bensì come un coacervo di algoritmi, una mera propaggine di quella sconfinata rete di informazioni interconnesse che lo scrittore definisce “internet di tutte le cose”.
Ecco come Harari descrive (senza rivendicarlo come proprio) questo punto di vista: “Gli organismi sono algoritmi e gli umani non sono individui, essi sono ‘divisibili’. Ovvero gli umani sono un assemblaggio di molti algoritmi differenti privi di un’unica voce interiore o di un singolo sé. Gli algoritmi che costituiscono un umano non sono liberi. Sono plasmati dai geni e dalle pressioni ambientali, e prendono decisioni in maniera deterministica o a caso, ma non liberamente. Un algoritmo che monitora ciascuno dei sistemi attivi nel mio corpo e nel mio cervello potrebbe sapere chi io sia realmente, come mi senta e che cosa desideri. Una volta sviluppato, un algoritmo del genere potrebbe sostituire l’elettore, il consumatore e l’osservatore”.
Tuttavia, l’aspetto ancor più inquietante della disamina di Harari riguarda il “tipo” di società con cui “più probabilmente” avranno a che fare i nostri discendenti (ma forse anche noi riusciremo a vederla, purtroppo): “Alcuni individui costituiranno una piccola e privilegiata élite di umani potenziati. (…) D’altro canto, la maggior parte degli uomini non sarà potenziata, e di conseguenza diventerà una casta inferiore dominata sia dagli algoritmi informatici sia dai nuovi superuomini”.
Questo scenario non è poi così distante dalle (per la verità, è assai vicino alle) più fosche previsioni di tutti coloro i quali – inesorabilmente bollati come complottisti – si ostinano a metterci in guardia sul futuro. E anche sulle presenti, e presunte, “buone intenzioni” di chi alacremente lavora alle varie agende finalizzate a realizzarlo. Forse non è troppo tardi per un serio dibattito sul tema.
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