Trent’anni sono lo spazio di una generazione. Come si può pensare che bastino a spazzare via organizzazioni criminali con 200 anni di storia? Come si può pensare che i successi eccellenti incassati dallo Stato in questi ultimi tre decenni autorizzino a cantar vittoria e a “spegnere i riflettori”?
Qualche giorno fa è morto Raffaele Ganci, aveva 90 anni, scontava diversi ergastoli, era ritenuto responsabile anche del sangue del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Era ricoverato nel reparto detenuti dell’ospedale San Paolo di Milano, come è giusto che sia per un uomo anziano e molto malato. Un irriducibile corleonese, legatissimo a Totò Riina, non aveva mai collaborato con lo Stato: ha senz’altro incarnato la declinazione mafiosa del concetto di resilienza.
Nel mese di maggio con l’operazione “Propaggine” la Distrettuale antimafia di Roma ha azzerato una locale di ‘ndrangheta incistata nella capitale, sequestrato 24 esercizi commerciali, messo in evidenza e colpiti i rapporti consolidati tra ‘ndrangheta, camorra e mafia albanese: profilo basso, fiumi di droga, riciclaggio e rapporti alto locati. Il tutto condito da tanta, tanta violenza, quella che fa dire ad un affiliato, captato in una intercettazione: “Alla moglie butto in faccia così tanto acido che quello quando la guarda dovrà pensare ‘è colpa mia’ e a lui lo lascio sulla sedia a rotelle”.
Nicola Gratteri non perde occasione per avvertire del rischio rappresentato dalla immensa circolazione di armi conseguente alla invasione russa dell’Ucraina, come avvenne dopo la guerra nella ex-Jugoslavia… In un Paese che cerca di imparare dalla propria storia, ci si aspetterebbe di cogliere un dibattito politico conseguente, decisioni coerenti che vadano nella direzione di rafforzare il sistema anti-mafia, confermando per esempio la centralità dei collaboratori di giustizia e di conseguenza l’importanza delle norme severe sul regime penitenziario, l’importanza delle misure di prevenzione amministrative e giudiziarie soprattutto di natura patrimoniale, l’importanza che le distrettuali antimafia, la Procura nazionale antimafia, la Dia abbiano organici e risorse adeguati e così seguitando.
E invece c’è una parte significativa del Paese impegnata a smontare questo armamentario, ammantando il tentativo con due argomenti sofisticati e pericolosi. Il primo: “l’onda di piena” è passata, la mafia stragista è stata sconfitta, quello che resta della mafia non rappresenta più un problema grave per l’ordine pubblico. Il secondo: le ragioni che 40 e 30 anni fa giustificarono l’inserimento nell’ordinamento italiano di istituti giuridici troppo severi e penetranti sono dunque venute meno e questo ci consente di addomesticarli, se non proprio di abolirli, tornando nel solco di un diritto “equilibrato” e “civile”. Ultimo atto in ordine di tempo, un convegno promosso il 30 maggio dall’Unione Camere penali, al quale ha partecipato, tra gli altri, il sottosegretario alla Giustizia, on. Francesco Paolo Sisto, che ha avuto ad oggetto l’improrogabile urgenza con la quale si dovrebbero riformare (di nuovo!) le misure di prevenzione patrimoniali (ovvero l’aggressione ai patrimoni illeciti attraverso il meccanismo rivoluzionario voluto da Pio La Torre), per renderle maggiormente attente alle pretese (sacrosante!) della difesa, concedendo all’attuale sistema di essere stato appena un poco migliorato da “recenti aggiustamenti interpretativi”.
Ma come, “recenti aggiustamenti interpretativi”?!?! Come se la riforma del Codice Antimafia approvata a larghissima maggioranza nella XVII Legislatura non abbia profondamente innovato proprio la procedura che porta dal sequestro alla confisca dei beni di provenienza illecita, rafforzando esplicitamente le garanzie delle difese tanto del proposto, quanto dei terzi di buona fede. Sarebbe più onesto gettare la maschera e dichiarare la propria radicale avversione per tutto il sistema della prevenzione, che infatti viene definito (sempre nello stesso comunicato) “smaccatamente inquisitorio”.
Chi ha a cuore la sconfitta definitiva delle organizzazioni criminali di stampo mafioso in Italia non deve avere paura dei cambiamenti, che sono sempre necessari vista la mutevolezza del fenomeno e delle circostanze anche tecnologiche in cui esso si realizza. Tuttavia per incamminarsi sulla via necessaria del cambiamento bisogna prima capire bene con quale compagnia si affronta il viaggio, per non accorgersi troppo tardi che le “mappe” sono state prese al contrario e che la destinazione è capovolta. E qualora non si abbiano sufficienti garanzie sulla compagnia e sulle sue intenzioni, è meglio dire, come ha detto recentemente Giuliano Turone intervenendo su un’altra riforma della quale qualcuno avverte pure l’improrogabile urgenza, quella del 416 bis: “Per favore, no!”