Gli italiani sono chiamati a votare alcuni referendum abrogativi: questa volta i temi attengono alla giustizia ed in specie alla giustizia penale e all’ordinamento giudiziario. Intendo svolgere alcune considerazioni su due quesiti che investono direttamente lo svolgimento del processo e dunque l’esercizio della funzione giudiziaria nel suo momento più importante e decisivo. Si tratta della proposta di separare radicalmente e definitivamente le carriere tra magistrati d’accusa (i pubblici ministeri) e magistrati giudicanti (i giudici) e di quella di abrogare parte della norma che stabilisce i presupposti applicativi delle misure cautelari (con principale riferimento a quelle detentive).

L’idea di separare le carriere dei magistrati è oggetto di polemica da anni. I magistrati difendono il diritto di poter essere destinati, nel corso della loro carriera, sia all’una che all’altra funzione. Anzi, costoro sostengono che questa opportunità sia una garanzia per loro e per il cittadino che deve essere giudicato in quanto, anche un magistrato accusatore, sarebbe portatore di quella che viene definita la “cultura della giurisdizione” (tipica del giudicante). Come dire, un magistrato dell’accusa, privato della “cultura della giurisdizione”, rischierebbe di essere solamente un “poliziotto cattivo”, seppure in toga. Sull’altro fronte si schierano da sempre le Camere Penali (l’associazionismo penale forense) e una parte della politica.

Una premessa: i giovani magistrati scelgono sempre di più di specializzarsi e ritengo che abbiano ben assorbito lo spirito del “nuovo” modello processuale penale che tendenzialmente equipara la funzione del pubblico ministero a quella di un avvocato d’accusa e stacca il giudice dai contendenti.

Ma credo sia decisiva una ulteriore considerazione: solamente in Francia (tra i Paesi con sistemi processuali avanzati) esiste una vera e propria separazione tra il “Parquet” (l’ufficio del pubblico ministero) che è addirittura una emanazione del Ministero dell’Interno, ed i giudici. I sistemi anglosassoni prevedono soluzioni assai diverse tra loro: negli Stati Uniti buona parte degli accusatori sono eletti e non sono magistrati di carriere (e dunque si può affermare, un po’ provocatoriamente, che il pubblico ministero è una funzione amministrativa e dunque come “mestiere” non esiste); in Inghilterra il sistema dei “barristers” (i giuristi d’aula di dibattimento, quelli con che indossano la parrucca settecentesca) sono la propalazione del medesimo ordine che unisce anche gli avvocati ed i giudici.

Io ritengo che il modello inglese sia la vera risposta al timore espresso dalle Camere Penali con una vignetta spiritosa e maliziosa di qualche anno fa in cui era rappresentato un calciatore avvocato e un calciatore pubblico ministero in cui, il primo, dichiarava di aver portato il pallone e il secondo (il pubblico ministero) affermava di aver portato l’arbitro (cioè il giudice).

La “cultura della giurisdizione”, se correttamente intesa (cioè rispetto assoluto delle norme di diritto sulla valutazione della prova e sulla logica giudiziaria) è un bene comune (anzi comunissimo) della difesa, dell’accusa e del giudice. Solamente con maggiore “cultura della giurisdizione” in tutti i componenti togati del processo potrebbe realizzarsi realmente il giusto processo richiamato dalla Costituzione all’articolo 111.

Quanto al quesito sull’abrogazione di parte della normativa che funge da presupposto per l’applicazione delle misure cautelari, ritengo che si tratterebbe di un provvedimento di civiltà giuridica. Le carceri sono affollate e i processi sono, assai spesso, troppo lunghi. La misura cautelare diviene il modo per scontare parte della pena come “presofferto” e potersi avvantaggiare, dopo la condanna, di misure alternative.

Peraltro, ritengo che una buona riforma della giustizia dovrebbe passare anche da una decisa e radicale depenalizzazione di molti reati minori. La giurisdizione penale deve essere un’operazione cognitiva riservata a questioni complesse e che meritano la massima attenzione, senza perdersi in giudizi del tutto improduttivi per la sua funzione decisiva e cioè quella identificata dal sociologo Durkheim tra Ottocento e Novecento: una terapia contro la malattia sociale costituita dal delitto.

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