Cosa cambia per l’Italia dopo l’accordo europeo sulla direttiva per “un’equo salario minimo”? Nonostante il ministro del Lavoro Andrea Orlando lo definisca “un assist per i lavoratori“, poco. Perché stabilire quale debba essere un livello “adeguato” di salario minimo è innanzitutto una scelta della politica e quella italiana resta divisa, governo compreso. Ma non solo. Nei ventuno paesi Ue che l’hanno già adottata, la misura è il frutto di una concertazione tra le parti sociali che da noi è ancora tutta da costruire. Non è nemmeno questione di favorevoli e contrari, che già sarebbe un passo avanti. No, in Italia siamo ancora alle opinioni in ordine sparso. All’indomani dell’accordo, infatti, dalla politica ai sindacati ognuno interpreta la notizia come gli fa più comodo. Di “accordo storico” parla l’ex ministro del Lavoro e attuale titolare degli Esteri, Luigi Di Maio, di “pacco per i lavoratori” il capogruppo di Forza Italia in commissione Affari esteri al Senato, Enrico Aimi. E se l’Unione sindacale di base (Usb) propone di fissare il salario minimo per legge a 10 euro, Uil e Cisl preferiscono sottolineare che la direttiva “indica che ciò può avvenire anche attraverso il rafforzamento della contrattazione collettiva, la strada che abbiamo indicato e che condividiamo”.
Premessa: l’accordo raggiunto a Strasburgo tra Commissione, Parlamento e Consiglio europei non imporrà di definire per legge un salario minimo nei Paesi dove i minimi sono stabiliti dai contratti collettivi nazionali. Ma soprattutto non dice in alcun modo che i salari minimi debbano essere applicati a tutti i lavoratori. Insomma, la direttiva non si intrometterà nel processo decisionale dei singoli Stati e nonostante il limite dei due anni per recepirla c’è tempo a sufficienza perché governo e Parlamento lascino tutto esattamente com’è, con buona pace del lavoro povero e dell’inflazione che lo impoverisce ulteriormente. Ma anche della ministra di Italia Viva per le Pari opportunità e la Famiglia, Elena Bonetti, convinta che sul salario minimo “il governo si muoverà con il metodo della ricomposizione delle divisioni di cui è maestro il presidente Mario Draghi“. E soprattutto di un ministro del Lavoro che non passa giorno senza rilasciare dichiarazioni sul salario minimo. Salvo poi e più mestamente ricordare che per una legge servirebbero “maggioranze più omogenee”. Il suo collega alla Pubblica amministrazione Renato Brunetta, per esempio, è convinto che “il salario minimo per legge non va bene perché è contro la nostra storia culturale di relazione industriali“.
Ma anche dando per scontato, e non lo è, che dem e cinquestelle la pensino esattamente allo stesso modo, “non serve il salario minimo così come lo vogliono imporre Pd e M5s, perché gli stipendi devono essere frutto della contrattazione tra i rappresentanti di lavoratori e imprese”, ha detto il coordinatore nazionale di Forza Italia e parlamentare europeo del Ppe, Antonio Tajani. A complicare la “ricomposizione” di Draghi, la proposta di FI e Lega punta ad alzare i salari attraverso il taglio del cuneo fiscale, “recuperando i fondi da quella autentica vergogna che è il reddito di cittadinanza”, come dice il senatore di FI Aimi. Sulla centralità della decontribuzione il centrodestra è sostenuto anche da Italia Viva: “Se qualcuno pensa di scaricare sulle imprese il diritto sacrosanto a salari più alti, è destinato al fallimento”, avverte il vice-presidente della commissione Lavoro alla Camera, Camillo D’Alessandro. Tanto per essere chiari, siamo ancora agli appelli al famoso “confronto senza ideologismi“. E se il M5s avverte le destre – “non provino a bloccare un risultato storico” – l’amara verità è una proposta di legge presentata dallo stesso Movimento che da tempo si trascina in commissione Lavoro del Senato e che, rinvio dopo rinvio, non è ancora giunta all’esame degli emendamenti. Sempre che ci arrivi, il disegno di legge potrebbe uscirne con le ossa rotte.
Che l’Italia non sia un paese per il salario minimo legale lo dimostrano anche i sindacati. Da un lato proposte come quella dell’Usb che chiede di fissare il salario minimo a 10 euro l’ora attraverso i minimi tabellari (la proposta M5s parla di 9 euro, ndr). Dall’altro le dichiarazioni del segretario Cisl Luigi Sbarra, convinto che “non serve un salario minimo per legge a 9 euro lordi” e che la soluzione sia quella “di rafforzare i minimi dei contratti sottoscritti dalle organizzazioni maggiormente rappresentative e a questi va dato valore legale”. Tesi che sposa volentieri anche il segretario generale Uil Pierpaolo Bombardieri, che chiede il taglio del cuneo fiscale e di legare l’attuazione della direttiva Ue “alla contrattazione collettiva, facendo coincidere il salario minimo ai minimi contrattuali”. Confindustria invece si chiama fuori “perché i contratti da noi firmati prevedono già paghe superiori”. E se proprio deve ragionare di salario minimo, pone alcune condizioni. A partire dalla necessità, dice il vicepresidente dei confindustriali Maurizio Stirpe, “che venga fissato come percentuale compresa tra il 40 e il 60% del salario mediano” (l’Ue parla di 60 per cento, ndr), che poi significa fissare la soglia tra i 5 e i 6 euro, quindi ben lontano dai 9 euro della proposta di legge del M5s che corrispondono quasi all’80 per cento dell’attuale salario mediano italiano.
Per questa legislatura la via al salario minimo fissato per legge sembra sbarrata. L’alternativa, almeno a parole, è quella di una riforma della rappresentanza che dia valore legale ai contratti firmati dalle sigle maggiormente rappresentative, dichiarando guerra ai contratti pirata che contribuiscono alla corsa al ribasso di salari e diritti. Questo, se non altro, bisognerà trovare il modo di farlo perché ad oggi l’Italia non è in grado di fornire all’Ue un dato certo sulla percentuale di lavoratori effettivamente coperta dai contratti collettivi. E siccome la direttiva prevede che sia almeno l’80 per cento, si rischia la procedura di infrazione. Ma ancora una volta siamo all’anno zero o poco ci manca. L’accordo tra i confederali per misurare l’effettiva rappresentanza sindacale ha ormai otto anni e non ha mai visto applicazione, mentre sul lato datoriale non si è mai nemmeno arrivati a una presa di posizione unitaria. Né si può dare per scontato che una simile riforma riesca a sanare aree dove la concorrenza al ribasso la fanno anche contratti firmati da Cgil, Cisl e Uil, o che la novità convinca le parti sociali a sedersi al tavolo per rinnovare contratti scaduti da anni nonostante le busta paga siano spesso al di sotto della soglia di povertà, cioè quel 60 per cento del reddito familiare mediano disponibile che la Commissione europea ha indicato come riferimento operativo da inserire nella direttiva. Insomma, prima ancora di dividersi tra favorevoli e contrari l’Italia avrebbe bisogno di riordinare le idee. O magari di una proposta del governo sulla quale confrontarsi e che ad oggi non è stata ancora definita. Intanto, per dirla con il commissario europeo agli Affari economici Paolo Gentiloni, l’accordo Ue è “un’occasione”. Niente più di un’occasione.
Lavoro & Precari
Chi non vuole il salario minimo? Politica divisa anche sulla direttiva Ue, da “accordo storico” a “pacco per i lavoratori”
La direttiva Ue sul salario minimo non obbliga gli Stati a definire una soglia, e per i Paesi come l'Italia rimane la possibilità di arrivare a compensi più equi attraverso la contrattazione collettiva, attuando innanzitutto una riforma della rappresentanza sindacale. Qualunque sarà la scelta, la strada è però ancora tutta da fare. Perché dalla politica ai sindacati siamo ancora alle opinioni in ordine sparso, comprese quelle che preferiscono concentrarsi sul taglio del cuneo fiscale prendendo i fondi dal Reddito di cittadinanza
Cosa cambia per l’Italia dopo l’accordo europeo sulla direttiva per “un’equo salario minimo”? Nonostante il ministro del Lavoro Andrea Orlando lo definisca “un assist per i lavoratori“, poco. Perché stabilire quale debba essere un livello “adeguato” di salario minimo è innanzitutto una scelta della politica e quella italiana resta divisa, governo compreso. Ma non solo. Nei ventuno paesi Ue che l’hanno già adottata, la misura è il frutto di una concertazione tra le parti sociali che da noi è ancora tutta da costruire. Non è nemmeno questione di favorevoli e contrari, che già sarebbe un passo avanti. No, in Italia siamo ancora alle opinioni in ordine sparso. All’indomani dell’accordo, infatti, dalla politica ai sindacati ognuno interpreta la notizia come gli fa più comodo. Di “accordo storico” parla l’ex ministro del Lavoro e attuale titolare degli Esteri, Luigi Di Maio, di “pacco per i lavoratori” il capogruppo di Forza Italia in commissione Affari esteri al Senato, Enrico Aimi. E se l’Unione sindacale di base (Usb) propone di fissare il salario minimo per legge a 10 euro, Uil e Cisl preferiscono sottolineare che la direttiva “indica che ciò può avvenire anche attraverso il rafforzamento della contrattazione collettiva, la strada che abbiamo indicato e che condividiamo”.
Premessa: l’accordo raggiunto a Strasburgo tra Commissione, Parlamento e Consiglio europei non imporrà di definire per legge un salario minimo nei Paesi dove i minimi sono stabiliti dai contratti collettivi nazionali. Ma soprattutto non dice in alcun modo che i salari minimi debbano essere applicati a tutti i lavoratori. Insomma, la direttiva non si intrometterà nel processo decisionale dei singoli Stati e nonostante il limite dei due anni per recepirla c’è tempo a sufficienza perché governo e Parlamento lascino tutto esattamente com’è, con buona pace del lavoro povero e dell’inflazione che lo impoverisce ulteriormente. Ma anche della ministra di Italia Viva per le Pari opportunità e la Famiglia, Elena Bonetti, convinta che sul salario minimo “il governo si muoverà con il metodo della ricomposizione delle divisioni di cui è maestro il presidente Mario Draghi“. E soprattutto di un ministro del Lavoro che non passa giorno senza rilasciare dichiarazioni sul salario minimo. Salvo poi e più mestamente ricordare che per una legge servirebbero “maggioranze più omogenee”. Il suo collega alla Pubblica amministrazione Renato Brunetta, per esempio, è convinto che “il salario minimo per legge non va bene perché è contro la nostra storia culturale di relazione industriali“.
Ma anche dando per scontato, e non lo è, che dem e cinquestelle la pensino esattamente allo stesso modo, “non serve il salario minimo così come lo vogliono imporre Pd e M5s, perché gli stipendi devono essere frutto della contrattazione tra i rappresentanti di lavoratori e imprese”, ha detto il coordinatore nazionale di Forza Italia e parlamentare europeo del Ppe, Antonio Tajani. A complicare la “ricomposizione” di Draghi, la proposta di FI e Lega punta ad alzare i salari attraverso il taglio del cuneo fiscale, “recuperando i fondi da quella autentica vergogna che è il reddito di cittadinanza”, come dice il senatore di FI Aimi. Sulla centralità della decontribuzione il centrodestra è sostenuto anche da Italia Viva: “Se qualcuno pensa di scaricare sulle imprese il diritto sacrosanto a salari più alti, è destinato al fallimento”, avverte il vice-presidente della commissione Lavoro alla Camera, Camillo D’Alessandro. Tanto per essere chiari, siamo ancora agli appelli al famoso “confronto senza ideologismi“. E se il M5s avverte le destre – “non provino a bloccare un risultato storico” – l’amara verità è una proposta di legge presentata dallo stesso Movimento che da tempo si trascina in commissione Lavoro del Senato e che, rinvio dopo rinvio, non è ancora giunta all’esame degli emendamenti. Sempre che ci arrivi, il disegno di legge potrebbe uscirne con le ossa rotte.
Che l’Italia non sia un paese per il salario minimo legale lo dimostrano anche i sindacati. Da un lato proposte come quella dell’Usb che chiede di fissare il salario minimo a 10 euro l’ora attraverso i minimi tabellari (la proposta M5s parla di 9 euro, ndr). Dall’altro le dichiarazioni del segretario Cisl Luigi Sbarra, convinto che “non serve un salario minimo per legge a 9 euro lordi” e che la soluzione sia quella “di rafforzare i minimi dei contratti sottoscritti dalle organizzazioni maggiormente rappresentative e a questi va dato valore legale”. Tesi che sposa volentieri anche il segretario generale Uil Pierpaolo Bombardieri, che chiede il taglio del cuneo fiscale e di legare l’attuazione della direttiva Ue “alla contrattazione collettiva, facendo coincidere il salario minimo ai minimi contrattuali”. Confindustria invece si chiama fuori “perché i contratti da noi firmati prevedono già paghe superiori”. E se proprio deve ragionare di salario minimo, pone alcune condizioni. A partire dalla necessità, dice il vicepresidente dei confindustriali Maurizio Stirpe, “che venga fissato come percentuale compresa tra il 40 e il 60% del salario mediano” (l’Ue parla di 60 per cento, ndr), che poi significa fissare la soglia tra i 5 e i 6 euro, quindi ben lontano dai 9 euro della proposta di legge del M5s che corrispondono quasi all’80 per cento dell’attuale salario mediano italiano.
Per questa legislatura la via al salario minimo fissato per legge sembra sbarrata. L’alternativa, almeno a parole, è quella di una riforma della rappresentanza che dia valore legale ai contratti firmati dalle sigle maggiormente rappresentative, dichiarando guerra ai contratti pirata che contribuiscono alla corsa al ribasso di salari e diritti. Questo, se non altro, bisognerà trovare il modo di farlo perché ad oggi l’Italia non è in grado di fornire all’Ue un dato certo sulla percentuale di lavoratori effettivamente coperta dai contratti collettivi. E siccome la direttiva prevede che sia almeno l’80 per cento, si rischia la procedura di infrazione. Ma ancora una volta siamo all’anno zero o poco ci manca. L’accordo tra i confederali per misurare l’effettiva rappresentanza sindacale ha ormai otto anni e non ha mai visto applicazione, mentre sul lato datoriale non si è mai nemmeno arrivati a una presa di posizione unitaria. Né si può dare per scontato che una simile riforma riesca a sanare aree dove la concorrenza al ribasso la fanno anche contratti firmati da Cgil, Cisl e Uil, o che la novità convinca le parti sociali a sedersi al tavolo per rinnovare contratti scaduti da anni nonostante le busta paga siano spesso al di sotto della soglia di povertà, cioè quel 60 per cento del reddito familiare mediano disponibile che la Commissione europea ha indicato come riferimento operativo da inserire nella direttiva. Insomma, prima ancora di dividersi tra favorevoli e contrari l’Italia avrebbe bisogno di riordinare le idee. O magari di una proposta del governo sulla quale confrontarsi e che ad oggi non è stata ancora definita. Intanto, per dirla con il commissario europeo agli Affari economici Paolo Gentiloni, l’accordo Ue è “un’occasione”. Niente più di un’occasione.
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Il salario minimo manderebbe un segnale chiaro sul problema del lavoro povero
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Mondo
Netanyahu negli Usa, primo leader da Trump. Il piano del tycoon: “Gaza sarà la riviera del Medio Oriente”. Hamas: “Ridicolo e assurdo”
Lavoro & Precari
Crisi dell’auto: Italia, Francia e Germania “svuotate” dall’Est. E ora c’è chi va in Africa. Industria a pezzi, gli operai in piazza a Bruxelles: ‘Ue governi la transizione’
Da Il Fatto Quotidiano in Edicola
Da ‘governo estraneo’ a ‘scelta politica’: tutte le versioni sul caso Almasri. La nuova piroetta di Nordio: ‘Dall’Aja mandato d’arresto con errori’
Washington, 5 feb. (Adnkronos/Afp) - Una sparatoria nello Stato americano dell'Ohio ha provocato almeno un morto e cinque feriti. Ad annunciarlo alle prime ore di oggi è stata la polizia locale, spiegando che il presunto responsabile è ancora in fuga.
La sparatoria è avvenuta nella tarda serata di ieri ora locale a New Albany, in un deposito in cui sono immagazzinati cosmetici. C'è stata "una vittima" e cinque feriti, raggiunti da colpi di arma da fuoco, ora ricoverati in ospedale, ha annunciato Greg Jones, capo della polizia della città.
Sulla "persona di interesse", ossia il sospetto, Jones ha detto che non vi è motivo "di credere che sia una minaccia generale per la società". "Sembra che si tratti di un attacco mirato", ha aggiunto, spiegando che la polizia ha evacuato circa 150 persone e che nel magazzino è stata trovata un'arma da fuoco. Jones ha detto che le autorità stanno operando per fermare il sospetto.
Pechino, 4 feb. (Adnkronos) - Pechino non resta ferma davanti alla decisione di Trump di porre dazi aggiuntivi del 10% sui prodotti cinesi importati negli Stati Uniti. Ma manda una risposta che, secondo molti osservatori, è "più simbolica" che altro. La rappresaglia cinese colpisce il settore dell'energia, delle auto, arriva con "contromisure" che prendono di mira singole aziende americane e con una stretta sulle esportazioni di metalli e metalloidi, oltre a un'indagine antitrust contro Google. Sembra l'inizio di un nuovo round della guerra commerciale tra le due potenze. Quella in cui, ripetono da tempo i cinesi, "non ci sono vincitori né vinti".
Il leader cinese Xi Jinping, che non fa mistero delle sue ambizioni di una Cina alla guida di un ordine mondiale alternativo, potrebbe vedere persino un'opportunità, evidenzia la Bbc, sottolineando come le contromisure cinesi, tutte mirate, siano limitate nella portata rispetto ai dazi decisi da Trump, come l'impatto sugli Usa possa essere limitato. Gli Stati Uniti sono il principale esportatore di Gnl al mondo, ma riguarda la Cina circa il 2,3% di queste esportazioni e il grosso delle importazioni di auto arriva da Europa e Giappone. Così, secondo la rete britannica, potrebbe trattarsi di un modo per guadagnare un po' di potere contrattuale in vista di eventuali colloqui, anche se esiste comunque il rischio di una guerra commerciale più vasta fatta di rappresaglie.
La rete britannica sottolinea come molto sia cambiato dalla prima Amministrazione Trump, come l'economia cinese non sia più dipendente dagli Stati Uniti, come era nel 2020, come Pechino abbia rafforzato gli accordi con gli 'amici' in Africa, in America Latina e nel Sudest asiatico. E, rimarca la Bbc, mentre le mosse di Trump seminano divisione, con la minaccia di colpire persino l'Ue con i dazi, la Cina vorrà apparire calma, stabile e forse anche un partner commerciale più attraente.
La risposta cinese ai nuovi dazi "è una mossa più che altro simbolica", secondo Louise Loo di Oxford Economics, che - come riporta il Wall Street Journal - ritiene probabile ulteriori round di dazi. La risposta cinese sembra voler tenere 'in panchina' "misure che potrebbero provocare un danno più importante agli scambi commerciali" tra le due potenze, scrive il New York Times. "Si tratta di una risposta relativamente limitata, che interessa non più del 30% delle esportazioni Usa in Cina", conviene Bert Hofman, con un passato alla Banca Mondiale e ora docente all'East Asian Institute della National University of Singapore. Anche perché, è il ragionamento, probabilmente i cinesi si tengono pronti poiché "questo potrebbe essere solo il primo passo dell'Amministrazione Trump".
In questo contesto, secondo Yun Sun, direttore del programma Cina dello Stimson Centre, con "la politica 'America First' di Trump", che "porterà sfide e minacce per tutti i Paesi nel mondo", dal "punto di vista della competizione strategica Usa-Cina, un peggioramento di leadership e credibilità statunitense andrà a vantaggio della Cina".
E, come dice alla Bbc John Delury, docente alla Yonsei University di Seul, "la combinazione di dazi contro i principali partner commerciali e il blocco degli aiuti all'estero mandano al Sud Globale e all'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico il messaggio che gli Usa non sono interessati alla collaborazione a livello internazionale". Così, "il messaggio di Xi sulla globalizzazione 'win-win' assume un significato completamente nuovo mentre l'America fa un passo indietro".
Tuttavia, evidenzia Chong Ja Ian di Carnegie China, "molti alleati e partner degli Usa, soprattutto nel Pacifico, hanno motivi per lavorare con Pechino, ma hanno anche ragione per essere prudenti". E per questo, osserva, "abbiamo visto avvicinarsi Giappone, Corea del Sud, Filippine e Australia". Ci sono i timori per l'assertività cinese nel Mar cinese meridionale, ma anche per Taiwan, isola di fatto indipendente che Pechino considera una "provincia ribelle" da "riunificare" e che è uno dei 'temi caldi' nei rapporti tra Washington e Pechino.
Roma, 5 feb. (Adnkronos) - Per trovare un compromesso con la nuova amministrazione americana di Donald Trump, che ha già iniziato una guerra commerciale con Messico, Canada e Cina, "occorre dialogare, e l'Italia è il migliore ambasciatore dell'Unione europea". Questo è quanto sostenuto dal ministro degli Esteri, Antonio Tajani, nella sua audizione a Montecitorio sul Consiglio affari esteri dell’Unione europea dello scorso 27 gennaio. "Mi sembra che il presidente Trump stia dando i primi segnali di volontà di negoziare. Lo dimostra quanto accaduto nelle ultime ore con la sospensione dei dazi per Canada e Messico, dimostra che il dialogo serve", ha aggiunto.
"A Bruxelles ho ribadito l’importanza di individuare un’agenda positiva su cui lavorare con gli Stati Uniti, mantenendoci pragmatici e aperti. La politica commerciale della nuova Amministrazione americana rappresenta un banco di prova per tutta l’Unione europea. È una sfida che vogliamo affrontare uniti, senza reazioni scomposte e spirali incontrollate. Le guerre commerciali non convengono a nessuno", ha detto. "Noi ci faremo trovare pronti. Stiamo elaborando una strategia per aumentare il raggio d’azione del nostro export e raggiungere sempre più nuovi mercati, come già avvenuto nel 2024, quando abbiamo raggiunto la cifra record di 305 miliardi di euro di export nell’area extra Ue", ha aggiunto.
"L’economia europea e quella americana sono profondamente legate. Il volume dell’interscambio rappresenta un terzo dell’intero commercio mondiale. Di tutti i beni statunitensi all’estero, due terzi sono in Europa - ha proseguito il ministro - Sono pertanto fiducioso che riusciremo a trovare dei punti di intesa anche sul piano commerciale, nel quadro del nostro rapporto solido con Washington".
"L’unità fra le due sponde dell’Atlantico è peraltro cruciale per tutelare i nostri interessi strategici, dal Mediterraneo allargato al Mar Rosso. Una tutela che deve essere garantita anche dallo strumento di una difesa comune. La Nato ne è la pietra angolare. Come ho sottolineato lo scorso mese di dicembre al Segretario Generale Rutte. Dobbiamo rafforzare il suo pilastro europeo. L’Europa deve dimostrare di sapersi assumere le proprie responsabilità. Serve infatti un salto di qualità nel processo d’integrazione, a cominciare appunto dal tema della difesa - ha detto Tajani - Cruciale sarà il tema dei finanziamenti. Dovremo pensare a soluzioni innovative, superare i tabù, scorporare le spese della difesa dai vincoli del Patto di Stabilità e Crescita, utilizzare gli eurobond e attingere a fondi del Next Generation Eu non utilizzati".
"Tornerò domani in Israele. L’Italia vuole essere protagonista di questo processo di pacificazione e di ricostruzione della Striscia", ha poi sottolineato poi Tajani aggiungendo: "Sul fronte israelo-palestinese, il Consiglio ha discusso della situazione sul terreno all’indomani del cessate il fuoco a Gaza. Abbiamo tutti accolto con sollievo le prime liberazioni di ostaggi e l’aumento dell’accesso di aiuti umanitari nella Striscia". "È un risultato a cui abbiamo lavorato senza sosta anche come presidenza del G7, sostenendo la mediazione di Stati Uniti, Qatar ed Egitto - ha ricordato - Proprio per questo ho voluto essere in Israele e Palestina già il giorno dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco. Ho incontrato il Presidente Herzog e il Ministro degli Esteri Sa’ar, e a Ramallah il Premier palestinese Mustafa, al quale ho annunciato un nuovo contributo da 10 milioni di euro a favore della popolazione di Gaza".
"Hamas non può tornare a controllare la Striscia. La popolazione di Gaza ha pagato un prezzo troppo alto per la sua follia terroristica. Per questo siamo in prima linea nel sostegno all’Autorità palestinese nel suo processo di riforme. A tale riguardo, il ridispiegamento della Missione europea Eubam a Rafah è un segnale fondamentale, dall’alto valore anche simbolico: una significativa presenza europea, con il compito di assistere l’Autorità Palestinese nella gestione del valico che collega Gaza all’Egitto - ha proseguito - Si tratta di uno snodo fondamentale per l’accesso umanitario e per la ripresa economica della Striscia".
"Come ha ribadito anche il ministro Crosetto, l’Italia garantirà ogni contributo necessario. I nostri Carabinieri dispiegati all’interno della missione hanno già raggiunto Rafah. Li incontrerò domani, insieme al Comandante generale dei Carabinieri Salvatore Luongo e al personale impegnato nella missione Miadit a Gerico che contribuisce alla formazione delle forze di sicurezza palestinesi. I nostri militari saranno una garanzia di equilibrio e stabilità, così come lo sono da tempo al confine tra Serbia e Kosovo", ha detto ancora il vicepremier.
"Il valico di Rafah sarà gestito in prima battuta da personale dell’Autorità palestinese in uniforme. È un punto molto importante, che consente all’Anp di tornare ad esercitare la propria sovranità su una porzione del territorio della Striscia. È un passo in avanti verso la seconda fase dell’accordo, ma anche la dimostrazione che l’Europa può fornire un contributo rilevante alla costruzione di una nuova stagione in Palestina, tanto in Cisgiordania quanto a Gaza - ha detto, per poi conculudere che - Con la nuova Amministrazione americana potremo lavorare anche per ridare slancio agli Accordi di Abramo per normalizzare i rapporti dei Paesi arabi con Israele. Quel percorso si era interrotto con gli attacchi del 7 ottobre. Adesso si devono riannodare i fili.
Washington, 5 feb. (Adnkronos/afp) - Il presidente americano Donald Trump ha svelato, nell'incontro a Washington con il premier israeliano Benjamin Netanyahu, il piano straordinario con cui gli Stati Uniti potrebbero assumere il controllo della Striscia di Gaza, trasformando il territorio nella "Riviera del Medio Oriente".
In conferenza stampa congiunta con Netanyahu dopo l'incontro tenutosi alla Casa Bianca, Trump ha presentato il suoi piano assicurando di voler rendere l'enclave martoriata dalla guerra "incredibile", rimuovendo bombe inesplose e macerie e riqualificandola sul piano economico. "Gli Stati Uniti prenderanno il controllo della Striscia di Gaza e ci lavoreranno. La possederemo", ha detto.
Il tycoon ha assicurato di avere il sostegno della "massima leadership" in Medio Oriente e ha aumentato la pressione su Egitto e Giordania per accogliere gli sfollati di Gaza, nonostante entrambi i paesi e i palestinesi avessero già respinto categoricamente l'ipotesi. Trump sostiene una "proprietà a lungo termine" di Gaza da parte degli Stati Uniti, che la renderebbe "la Riviera del Medio Oriente. Potrebbe essere qualcosa di magnifico".
Trump ha insistito sul fatto che i palestinesi “non hanno alternative” se non quella di lasciare il “grande cumulo di macerie” che è Gaza dopo oltre 15 mesi di bombardamenti israeliani volti a smantellare Hamas in risposta all'assalto del gruppo terroristico del 7 ottobre. Il presidente degli Stati Uniti ha quindi ribadito la sua convinzione che i palestinesi dovrebbero essere collocati in uno o più altri Paesi per "vivere in pace".
Da quando è tornato in carica, il tycoon ha insistito affinché Egitto e Giordania si offrissero di ospitare i palestinesi, ma i due Paesi hanno rifiutato categoricamente l'idea, sostenendo che ciò li destabilizzerebbe e che ai palestinesi dovrebbe essere permesso di rimanere nelle loro terre, proprio come agli israeliani.
Netanyahu ha mostrato apertura verso il piano di Trump, che potrebbe "cambiare la storia" e verso cui vale la pena "prestare attenzione". Il premier israeliano, giunto alla Casa Bianca per tenere colloqui sulla seconda fase della tregua Israele-Hamas, ha invece visto il focus dell'incontro spostato su un'iniziativa che potrebbe completamente trasformare lo status quo Medio Oriente. Trump, che ha anche fatto intendere di star ragionando su un possibile viaggio a Gaza, non sembra intenzionato a ricostruirla per i palestinesi. "Non dovrebbe passare attraverso un processo di ricostruzione e occupazione da parte delle stesse persone che hanno... vissuto lì e sono morte lì e hanno vissuto un'esistenza miserabile lì", ha detto.
I due leader avevano avuto momenti di tensione in passato, ma Netanyahu ha accolto il ritorno del tycoon alla Casa Bianca, dopo che i rapporti con Joe Biden erano stati messi in crisi dalla postura di Israele nel conflitto. Il leader israeliano non ha escluso un ritorno alle ostilità con Hamas o con gli altri nemici nella regione, tra cui Hezbollah e l'Iran in Libano. "Metteremo fine alla guerra vincendola", ha insistito Netanyahu, garantendo il ritorno di tutti gli ostaggi tenuti da Hamas.
Netanyahu ha anche espresso fiducia su un possibile accordo con la storica rivale regionale, l'Arabia Saudita, per normalizzare le relazioni. Ma dopo aver ascoltato il piano di Trump, Riad ha ribadito che non avrebbe formalizzato i legami con Israele senza la creazione di uno stato palestinese.
Israele e Hamas stanno iniziando a negoziare questa settimana i termini della seconda fase del cessate il fuoco a Gaza, che dovrebbe vedere il rilascio degli ostaggi ancora in vita in cambio della fine definitiva della guerra - cosa che probabilmente lascerebbe Hamas al potere, non rispettando l'impegno di Netanyahu di smantellare completamente le capacità militari e di governo del gruppo terroristico.
Pechino, 4 feb. (Adnkronos) - Pechino non resta ferma davanti alla decisione di Trump di porre dazi aggiuntivi del 10% sui prodotti cinesi importati negli Stati Uniti. Ma manda una risposta che, secondo molti osservatori, è "più simbolica" che altro. La rappresaglia cinese colpisce il settore dell'energia, delle auto, arriva con "contromisure" che prendono di mira singole aziende americane e con una stretta sulle esportazioni di metalli e metalloidi, oltre a un'indagine antitrust contro Google. Sembra l'inizio di un nuovo round della guerra commerciale tra le due potenze. Quella in cui, ripetono da tempo i cinesi, "non ci sono vincitori né vinti".
Il leader cinese Xi Jinping, che non fa mistero delle sue ambizioni di una Cina alla guida di un ordine mondiale alternativo, potrebbe vedere persino un'opportunità, evidenzia la Bbc, sottolineando come le contromisure cinesi, tutte mirate, siano limitate nella portata rispetto ai dazi decisi da Trump, come l'impatto sugli Usa possa essere limitato. Gli Stati Uniti sono il principale esportatore di Gnl al mondo, ma riguarda la Cina circa il 2,3% di queste esportazioni e il grosso delle importazioni di auto arriva da Europa e Giappone. Così, secondo la rete britannica, potrebbe trattarsi di un modo per guadagnare un po' di potere contrattuale in vista di eventuali colloqui, anche se esiste comunque il rischio di una guerra commerciale più vasta fatta di rappresaglie.
La rete britannica sottolinea come molto sia cambiato dalla prima Amministrazione Trump, come l'economia cinese non sia più dipendente dagli Stati Uniti, come era nel 2020, come Pechino abbia rafforzato gli accordi con gli 'amici' in Africa, in America Latina e nel Sudest asiatico. E, rimarca la Bbc, mentre le mosse di Trump seminano divisione, con la minaccia di colpire persino l'Ue con i dazi, la Cina vorrà apparire calma, stabile e forse anche un partner commerciale più attraente.
La risposta cinese ai nuovi dazi "è una mossa più che altro simbolica", secondo Louise Loo di Oxford Economics, che - come riporta il Wall Street Journal - ritiene probabile ulteriori round di dazi. La risposta cinese sembra voler tenere 'in panchina' "misure che potrebbero provocare un danno più importante agli scambi commerciali" tra le due potenze, scrive il New York Times. "Si tratta di una risposta relativamente limitata, che interessa non più del 30% delle esportazioni Usa in Cina", conviene Bert Hofman, con un passato alla Banca Mondiale e ora docente all'East Asian Institute della National University of Singapore. Anche perché, è il ragionamento, probabilmente i cinesi si tengono pronti poiché "questo potrebbe essere solo il primo passo dell'Amministrazione Trump".
In questo contesto, secondo Yun Sun, direttore del programma Cina dello Stimson Centre, con "la politica 'America First' di Trump", che "porterà sfide e minacce per tutti i Paesi nel mondo", dal "punto di vista della competizione strategica Usa-Cina, un peggioramento di leadership e credibilità statunitense andrà a vantaggio della Cina".
E, come dice alla Bbc John Delury, docente alla Yonsei University di Seul, "la combinazione di dazi contro i principali partner commerciali e il blocco degli aiuti all'estero mandano al Sud Globale e all'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico il messaggio che gli Usa non sono interessati alla collaborazione a livello internazionale". Così, "il messaggio di Xi sulla globalizzazione 'win-win' assume un significato completamente nuovo mentre l'America fa un passo indietro".
Tuttavia, evidenzia Chong Ja Ian di Carnegie China, "molti alleati e partner degli Usa, soprattutto nel Pacifico, hanno motivi per lavorare con Pechino, ma hanno anche ragione per essere prudenti". E per questo, osserva, "abbiamo visto avvicinarsi Giappone, Corea del Sud, Filippine e Australia". Ci sono i timori per l'assertività cinese nel Mar cinese meridionale, ma anche per Taiwan, isola di fatto indipendente che Pechino considera una "provincia ribelle" da "riunificare" e che è uno dei 'temi caldi' nei rapporti tra Washington e Pechino.
Roma, 4 feb. (Adnkronos) - Disagi in vista oggi in Lombardia per chi si sposta in treno. Dalle 3 di mercoledì 5 febbraio 2025 alle 2 di giovedì 6 il sindacato Orsa ha proclamato una giornata di sciopero che potrà generare ripercussioni al servizio Regionale, Suburbano, Aeroportuale e la Lunga Percorrenza di Trenord. Viaggeranno i treni con partenza prevista dopo le 6 e dopo le 18, con arrivo previsto entro le 9 ed entro le 21.
Nel caso di cancellazione dei treni del servizio aeroportuale, saranno istituiti bus senza fermate intermedie tra: Milano Cadorna e Malpensa Aeroporto per il Malpensa Express. Da Milano Cadorna gli autobus partiranno da via Paleocapa 1. Stabio e Malpensa Aeroporto per il collegamento aeroportuale S50 Malpensa Aeroporto – Stabio.
Disagi in vista anche per chi viaggia in aereo con lo sciopero del personale delle aziende di handling associate a Assohandlers indetto dalla Flai Trasporti e Servizi.
Cagliari, 04 feb. - (Adnkronos) - È morto il principe Karim Aga Khan, fu lui il 14 marzo del 1962 a fondare il Consorzio Costa Smeralda e portare al centro del mondo un angolo di Sardegna. "Non abbiamo parole. Solo una: grazie", è il commento ufficiale del Consorzio. L'annuncio ufficiale della scomparsa arriva dall'Aga Khan Development Network. "Sua Altezza il principe Karim Al-Hussaini, Aga Khan IV, 49° Imam ereditario dei musulmani sciiti ismailiti e diretto discendente del profeta Maometto (pace sia con lui), è deceduto pacificamente a Lisbona il 4 febbraio 2025, all'età di 88 anni, circondato dalla sua famiglia". A breve è previsto l'annuncio del suo successore.
"I leader e lo staff dell'Aga Khan Development Network porgono le nostre condoglianze alla famiglia di Sua Altezza e alla comunità ismailita di tutto il mondo - si legge in una nota -. Mentre onoriamo l'eredità del nostro fondatore, il principe Karim Aga Khan, continuiamo a lavorare con i nostri partner per migliorare la qualità della vita degli individui e delle comunità in tutto il mondo, come lui desiderava, indipendentemente dalle loro appartenenze religiose o origini".