Da una parte c’è la volontà di saldare l’offensiva militare a una analoga operazione turca in corso contro il Pkk nel Kurdistan iracheno, ma è soprattutto in seguito alla notizia del ritiro di un certo numero di truppe russe dalla Siria che la Turchia ha annunciato nei giorni scorsi l’inizio di un’altra offensiva, sempre contro formazioni curde, nel nord del Paese levantino, dilaniato da una guerra più che decennale. Alcune fonti militari turche hanno riferito a Middle East Eye che i preparativi per l’offensiva di Ankara nelle aree di Tal Rifaat e Manbij – fino ad alcuni anni fa sulla direttrice della cosiddetta “autostrada del jihad” che Ankara veniva accusata di aver reso piuttosto “scorrevole” – sono stati completati proprio contestualmente allo spostamento in Ucraina di altre truppe russe di stanza in Siria e nemmeno cinque giorni dopo l’annuncio di un’operazione per “ripulire l’area dai terroristi” fatto dal presidente Recep Tayyip Erdogan di fronte ai deputati del suo partito, l’AkParti.
“Stiamo entrando in una nuova fase in cui creeremo una safe zone di circa 30 chilometri sul nostro confine meridionale. Ripuliremo Manbij e Tal Rifaat dai terroristi e faremo lo stesso in altre regioni, passo dopo passo”, aveva detto Erdogan lo scorso mercoledì. Tal Rifaat, in particolare, ospita circa il 60% delle riserve di acqua potabile nell’intero quadrante e si trova in una posizione strategica, schiacciata tra le truppe turche e quelle del regime siriano.
Negli ultimi anni ha creato ad Ankara diversi grattacapi, visto che da lì sono partiti almeno un centinaio di attacchi con razzi e missili anti-carro da parte delle Ypg contro postazioni turche. Inoltre, il governo turco punta anche a rimpatriarvi circa 250mila siriani, fuggiti da Tal Rifaat nel 2016 e rifugiatisi nella città di Azaz, mentre le Ypg sottraevano l’area – compresa la base aerea di Menagh – al controllo dei ribelli siriani. Nei giorni scorsi aveva tenuto banco la ferma opposizione di Ankara all’ingresso nella Nato di Finlandia e Svezia, accusate di sostenere e dar rifugio a membri di formazioni curde.
Le truppe russe erano le seconde più numerose nell’area. Le citate fonti militari turche sostengono infatti che negli ultimi giorni queste ultime avrebbero in gran parte lasciato Tal Rifaat, ma anche diverse zone di Aleppo, venendo rimpiazzati dagli iraniani, gli altri alleati di Damasco. Questa situazione potrebbe dar luogo a un duplice vulnus collaterale: da una parte il rischio che Teheran – a differenza di Mosca che aveva un’intesa di massima con Ankara – non accetti la presenza vicino ad Aleppo di ribelli siriani sostenuti dalla Turchia, essendo impegnata – soprattutto attraverso le milizie sciite – assieme ai soldati lealisti nella sorveglianza dell’area; dall’altro la questione dei raid israeliani in Siria contro postazioni iraniane, sulla cui tollerabilità vi sarebbe un tacito accordo con Mosca.
Teheran avrebbe inoltre diverse ragioni per essere restìa all’impiego di ulteriori uomini in pianta stabile ed ufficiale in Siria, ancor meno in sostituzione dei russi, poiché finirebbe per estendere la portata geografica della propria vulnerabilità ai raid di Tel Aviv. L’Iran ha interesse a rimanere in Siria, ma non ad esporsi in modo plateale come suo principale pattugliatore sul terreno. Il graduale ritiro russo nel breve termine appare come un vantaggio ma può trasformarsi in un impedimento, anche se numerosi commentatori – soprattutto dei Paesi del Golfo – vedono questa dinamica rovesciata, per cui Teheran non aspetterebbe altro che un più massiccio ritiro russo dalla Siria per rafforzare il “corridoio” che da Teheran passa per Baghdad e arriva a Damasco. Alcuni report hanno mostrato nelle scorse settimane un aumento di movimenti di convogli delle Unità di Mobilitazione Popolare irachene (filo-iraniane), entrate in Siria attraverso la città di Al Bukamal.
Secondo quanto scritto da Hamdan Al Shehri su Arabnews, Teheran vuole rafforzare la sua posizione di lungo termine in Siria, con o senza i russi e anche a prescindere dalla presenza di Bashar al-Assad. La strategia iraniana non sarebbe quindi legata agli esiti o sviluppi del conflitto ma al “consolidamento dei propri interessi regionali di lungo termine” attraverso il rodato impiego di formazioni di guerriglia. Israele, come detto, utilizza invece la Russia come abilitatore dei propri strikes in territorio siriano. Dopo aver chiuso il passaggio nel Mar Nero alle navi russe, a inizio maggio Ankara aveva anche chiuso il suo spazio aereo ai velivoli russi diretti in Siria.
Nelle ore successive all’intervento di Erdogan, l’amministrazione americana aveva riaffermato che la questione della vendita di 40 F16 ad Ankara sarebbe rimasta “separata” dai diktat che la Turchia ha messo sul tavolo per accettare l’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato, smentendo l’idea secondo cui la fornitura avrebbe potuto ammorbidire la posizione di Erdogan sul tema. Ankara ha più volte chiesto di essere riammessa nel programma degli F35, dal quale era stata espulsa nel 2019 per aver comprato gli S-400, i sistemi di difesa missilistica russi.
Quella che si appresta a cominciare sarebbe la quinta offensiva turca nel nord della Siria a partire dal 2016. Le prime quattro, che sono coincise con episodi di tortura, uccisioni sommarie, violenze e con la fuga di migliaia di curdi dalle loro case assediate da gruppi islamisti fedeli ad Ankara, sono state coordinate con Mosca, sempre sullo sfondo di una certa apprensione di Washington, blandamente contraria a questi movimenti, mentre ancora un migliaio di soldati americani rimangono sul terreno. Questa potrebbe avere degli sviluppi inediti, e riportare al centro dell’attenzione un’area altamente instabile.