di Olga Mancone*

Argomento dibattuto e quanto mai attuale, il salario minimo riecheggia ormai dall’inizio di questa legislatura nelle aule del Parlamento e quando sembra vedersi una luce in fondo al tunnel è proprio quello il momento in cui qualcuno è pronto a porvi un freno.

Inapp e Inps hanno certificato che la retribuzione media dei lavoratori precari è di 8500 euro lordi annui, e quella degli stagionali di 5600. L’Ocse ha certificato che negli ultimi 30 anni in Italia i salari sono diminuiti del 2,9% contro un aumento del 33% della Germania, che ha appena portato il salario minimo orario a 12 euro. Nel nostro Paese, causa l’assenza dell’attuazione dell’articolo 39 della Costituzione e di conseguenza la mancata obbligatorietà dei CCNL per tutti i lavoratori italiani, si è discusso per diversi anni sulla legittimità di un salario minimo legale. In realtà, la discussione giuridica ha posto l’accento non tanto sulle modalità di computo della paga oraria minima, ma sulle modalità per renderla obbligatoria ed efficace per tutti.

Interventi legislativi in merito all’estensione dei CCNL sono stati diversi. Tra i più importanti ci sono la legge 14 luglio 1959, n. 741, l’articolo 45, comma 1 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 in materia di pubblico impiego o l’articolo 3 della legge 23 aprile 2001, n. 142 che prevede l’obbligo per le società cooperative di erogare ai propri soci lavoratori un trattamento economico proporzionato al lavoro svolto, e comunque non inferiore ai minimi tabellari previsti dai CCNL. Esiste, inoltre, una legislazione che mira ad un’estensione soggettiva indiretta, mediante il riconoscimento di incentivi, prevalentemente previdenziali, alle aziende che adottano la contrattazione di riferimento, come l’art. 36 dello Statuto dei Lavoratori o l’articolo 1 della legge 7 dicembre 1989, n. 389 o l’articolo 6, comma 9 della medesima norma, o anche l’obbligo di adottare il CCNL di riferimento per le aziende che partecipano a gare d’appalto pubbliche.

Tuttavia, occorre evidenziare che gli interventi suddetti hanno come scopo principale l’adozione in toto dei contratti collettivi da parte dell’aziende, ma non sono norme che mirano ad introdurre esclusivamente un minimo salariale. Ed è proprio in questo senso che interverrebbe il disegno di legge a prima firma della Senatrice Nunzia Catalfo, fermo in Commissione lavoro in Senato.

Fissare un minimo manderebbe un messaggio chiaro sul problema del lavoro povero. Lavoro povero che dipende, però, sia dai bassi salari orari sia dall’enorme quantità di part-time involontario, arrivato ormai a riguardare il 30% dei dipendenti privati, e dalle tante forme di lavoro atipico. Quel testo infatti non si limita a fissare una soglia minima di 9 euro lordi, ma propone come benchmark per ogni settore il trattamento minimo orario previsto dal contratto collettivo leader nel comparto. Soltanto nel caso in cui il salario minimo – individuato attraverso il contratto più rappresentativo della categoria – fosse troppo basso, varrebbe il minimo di 9 euro stabilito per legge. C’è un caso emblematico, il contratto sui servizi fiduciari, scaduto nel 2015, che indica in 4,60 lordi il minimo salariale. E’ sulla base di dati come questi che le forze politiche dovrebbero trovare la giusta spinta per introdurre un salario minimo legale per tutelare il potere di acquisto dei lavoratori (compresi quelli non coperti dai contratti collettivi) e mettere un freno al dumping salariale.

* Avvocato giuslavorista ed esperta in sicurezza nei luoghi di lavoro. Dal 2018 consulente giuridico per un gruppo parlamentare presso il Senato; dal 2020 consulente legislativo della Presidenza della Commissione 11 “Lavoro pubblico e privato, previdenza sociale”.

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