di Giuseppe Castro

E’ una sensazione comune che gli eventi degli ultimi tre anni, dal Covid alla crisi ucraina, passando per la ritirata degli Usa da Kabul, abbiano irrimediabilmente messo fine ad un’epoca, iniziata nel ’91 con la dissoluzione dell’Urss e la prima guerra in Iraq.

Questi 30 anni hanno avuto delle caratteristiche peculiari, forse irripetibili, che non possiamo non riconoscere a posteriori: il predominio politico degli Usa e la creazione di un’economia globalizzata che ha reso economicamente interdipendenti nazioni anche molto distanti tra loro.

Con la ritirata dall’Afghanistan gli Usa hanno reso evidente la loro volontà di interessarsi esclusivamente di quelle porzioni del mondo di immediato interesse geopolitico, mentre le restrizioni dovute al Covid – ma soprattutto la crisi ucraina – hanno causato una crisi, forse irreversibile, della globalizzazione.

Per le economie occidentali, la globalizzazione degli ultimi 30 anni ha rappresentato uno strumento fondamentale per continuare a crescere riducendo i costi di produzione mediante l’uso di manodopera a basso costo, scovata specialmente in Oriente. Il gioco al risparmio del capitalismo occidentale, tuttavia, sembra essersi ritorto contro negli ultimi anni: la crescita economica cinese, indiana e in generale asiatica è molto più rapida di quella occidentale e nel 2050, se la globalizzazione procedesse ai ritmi pre Covid, Cina e India diventerebbero le nazioni più ricche al mondo (il Pil cinese doppierebbe quasi quello Usa) con tutte le conseguenze politiche ed economiche del caso. Se il processo di globalizzazione è quindi uno strumento di crescita indispensabile per l’Oriente, comincia a trasformarsi in un frutto avvelenato per l’Occidente e per gli Usa in particolare.

Non è un caso che la nazione più interessata alla fine della crisi ucraina e a ristabilire la situazione pre Covid sia la Cina, mentre la nazione che più alimenta la tensione internazionale siano gli Usa. Il continuo gettare benzina sul fuoco delle crisi presenti nel mondo, come avvenuto in Ucraina, permetterebbe alla lunga di spaccare il globo in più blocchi contrapposti e arrestare, o comunque rallentare, il processo di globalizzazione. In questa prospettiva, “l’abbaiare della Nato alla porta della Russia”, seguita dalla cinica invasione russa dell’Ucraina, potrebbe essere solo il primo tempo di una partita che i giocatori principali, Usa e Cina, si limitano per ora a guardare dalla finestra.

Alcuni commentatori hanno paragonato i due blocchi che sembrano crearsi in questi mesi a quelli che hanno caratterizzato larga parte del XX secolo. Ma nel ‘900, lo scontro tra il blocco socialista e quello capitalista aveva profonde basi ideologiche e includeva una differente visione del mondo, della società e del futuro. Cina e Usa hanno oggi una visione del mondo estremamente simile. Il capitalismo statale cinese si oppone ad un capitalismo privato statunitense in un conflitto dovuto principalmente alla divergenza tra gli interessi delle rispettive classi dirigenti. Non a caso il blocco occidentale (teoricamente liberale) include varie democrazie illiberali, corteggia i paesi arabi (per la maggior parte dittature) e permette ad Erdogan il lusso di chiedere il rimpatrio dei dissidenti curdi in cambio del sostegno all’allargamento della Nato.

L’Europa, storicamente ricca grazie ai commerci, non ha (o non dovrebbe avere) alcun interesse a farsi stritolare in una lotta tra titani e dovrebbe ricercare una strategia comune per chiamarsi fuori dal conflitto globale, più o meno latente, che si prospetta. E se è doveroso schierarsi con l’Ucraina in seguito all’insensata e stupida invasione russa, è altrettanto doveroso evitare di farsi trascinare in una spirale di tensione i cui effetti avversi (crisi economica, migratoria e forse politica) la colpiranno direttamente con esiti difficilmente prevedibili.

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