Palermo è quell’immagine che rimane sullo sfondo di una campagna elettorale in cui se le danno tutti di santa ragione, ma in cui pochi parlano della città.
C’è una Palermo benpensante impegnata in una battaglia senza esclusione di colpi sulle caratteristiche politiche, morali e personali dei candidati e sulla complessa eredità della stagione orlandiana. E poi c’è un’altra Palermo, quella che chiamiamo periferia ma che in realtà è il cuore di questa città. Una città impegnata a vivere al meglio delle proprie possibilità. La città che tutti vogliamo ignorare ma che è lì davanti a noi: una delle più povere d’Europa, in cui il 70% della popolazione vive di trasferimenti pubblici, siano essi sotto forma di sussidi, pensioni o stipendi. Un deserto produttivo in cui si trascina a stento l’ultimo insediamento industriale rimasto: il cantiere navale.
Palermo è la città in cui una generazione di giovani laureati, pur di non dovere andar via, si è accontentata di un lavoro in un call center sufficiente per costruire una famiglia o per stare vicino alla propria di famiglia e che ora vede sfumare anche quella piccola opportunità mentre la città benpensante continua a discutere sulle macerie.
A questa città e di questa città ha parlato con la politica solo Leoluca Orlando. Il suo rapporto di osmosi con Palermo è, credo, unico nel suo genere, da quando figlio prediletto ne divenne giovanissimo sindaco la prima volta quasi quarant’anni fa fino ad oggi, che da stanco padre, la accompagna alla fine di una stagione che ne ha cambiato per sempre la storia.
Ora, io non so davvero dirvi se i meriti sono di Orlando e i demeriti della città e viceversa, proprio per quel rapporto di osmosi perfetta che credo abbia fatto di Leoluca Orlando, oltre che la guida, il principale interprete dei desideri, delle ambizioni e dello stato d’animo della città.
Ma quello che so è che sotto la sua guida la città ha cambiato più volte il corso della sua storia, ha prodotto un cambiamento culturale profondo che le ha permesso di riscattare il suo onore: da capitale della mafia a capitale dell’Antimafia. Ha valorizzato il suo patrimonio culturale al meglio di quello che poteva fare e ha provato a diventare una città “normale”. Ha costruito una sua identità come capitale dei diritti, inclusiva, ospitale, generosa come i suoi cittadini.
È questa l’eredità politica di una stagione che dovremmo raccogliere e mettere a valore sapendo affrontare le sfide su cui invece abbiamo fallito.
Sfide impegnative che si innestano in una più generale crisi della pubblica amministrazione, da quella dei rifiuti alla riforma della macchina amministrativa che in questa città, a partire dalle municipalizzate, è sempre stata anche un polmone occupazionale.
Ci piaccia o no, attraverso le assunzioni dei precari e le aziende partecipate, l’elefantiasi del pubblico è stata negli anni una risposta alla crisi occupazionale e quindi anche uno strumento di contrasto alla criminalità organizzata, ma ha avuto come rovescio della medaglia una inefficienza dei servizi pubblici, una scarsa qualificazione del personale e un costo troppo alto per un’amministrazione che, come tutte le altre, ha visto negli anni ridurre esponenzialmente i trasferimenti dallo Stato e dalla Regione. Tutte questioni con cui la prossima amministrazione dovrà fare i conti se vorrà in qualche modo misurarsi con la sfida del Pnrr e della messa a valore dell’eredità che ci resta.
In queste elezioni si gioca quindi il futuro della città di Palermo e in campo ci sono due opzioni.
La prima è il ritorno ad un passato che purtroppo molti sembrano aver dimenticato. Gli anni del sindaco tennista Cammarata e della città abbandonata a se stessa mentre i suoi sodali ne divoravano le spoglie. Le municipalizzate utilizzate come bancomat per pagare costosi viaggi a Dubai o assumere amici e parenti, il teatro Massimo utilizzato come parcheggio, il centro storico come Beirut dopo i bombardamenti. Gli anni di Cuffaro e Dell’Utri che non a caso tornano sul palcoscenico di questa campagna elettorale per mettere tutti in guardia: “Nei prossimi anni arriveranno fiumi di soldi del Pnrr e non possiamo permetterci che le divisioni del centrodestra ci facciano perdere la grande occasione di controllarne la spesa”.
La questione morale non riguarda quindi l’esercizio del diritto costituzionale a poter dire la propria di due condannati per reati di mafia che hanno scontato la loro pena. Ma il ruolo che la classe dirigente del centrodestra gli riconosce a tutti i livelli. Il problema non è Totò Cuffaro ma le centinaia di persone che lo acclamano alla presentazione della sua lista. Il problema non è Dell’Utri ma il fatto che sia ancora in grado di determinare il ritiro di un candidato di Forza Italia per riorganizzare il centrodestra siciliano.
Il problema è Roberto Lagalla che qualcuno ad un certo punto ha anche pensato potesse essere un buon candidato per il centrosinistra e che rappresenta invece il peggio di un sistema di potere che ha governato la Sicilia per decenni e che ha saccheggiato la macchina pubblica per favorire interessi privati. Era assessore alla Sanità di Cuffaro durante il periodo della “Mafia è bianca”, è assessore di Musumeci in uno dei governi peggiori che la Sicilia ricordi da quando c’è l’elezione diretta del Presidente.
È questo che merita Palermo? Un ritorno al passato che ne segnerà per sempre il declino?
Un pericolo di questa natura richiede una grande assunzione di responsabilità da parte di tutte le forze politiche del campo progressista. Responsabilità che a dire il vero non c’è stata per tutto il lungo periodo che ha preceduto questa campagna elettorale.
A Franco Miceli va quindi la riconoscenza di un’intera città per averci messo la faccia, l’anima e il corpo, per recuperare il dissesto di una classe dirigente del centrosinistra palermitano che ha dimostrato di non esistere senza Leoluca Orlando. Attorno alla sua candidatura, con grande senso di responsabilità, si sono schierate alcune delle energie migliori della città che, benché mortificate dalla politica locale, hanno deciso che non era il momento per tirarsi fuori. Ed è grazie a questo sforzo collettivo che oggi siamo qui a combattere fino all’ultimo per provare a strappare Palermo dalla sua capitolazione.
Il 12 giugno ci giochiamo questa partita ma dobbiamo sapere che comunque vada dal 13 giugno ne inizia una ancora più difficile, dobbiamo rinnovare la classe dirigente di questa città ed essere capaci di raccogliere la pesante eredità di chi ci ha preceduto, sapendo valorizzare quello che ci ha lasciato e provando là dove ha fallito ad andare oltre con tutta la fantasia e la determinazione che servirà per questa sfida.