“Ho scelto di denunciare perché non voglio che altre persone vivano quello che ho dovuto subire io lavorando nei campi”. Adama è uno dei lavoratori che hanno denunciato lo sfruttamento nel distretto della frutta di Saluzzo, in provincia di Cuneo. Da quella denuncia è nata un’inchiesta che ha portato alle prime condanne per caporalato e per sfruttamento nel più importante distretto della frutta del nord ovest. Fino a cinque anni di reclusione in primo grado per quattro imprenditori e un caporale. “Ma si tratta soltanto della punta di un iceberg di un sistema di sfruttamento diffuso” spiega Zeno Foderaro, della Flai Cgil di Cuneo che nel corso degli anni ha raccolto centinaia di testimonianze di braccianti tra cui quella di Adama.
“Ho iniziato a lavorare nella zona di Lagnasco nel 2018” ricorda il lavoratore da cui è partita l’inchiesta. Raccoglieva la frutta: pere, pesche, mele. Un impiego trovato grazie a un caporale di origine africana che lavorava per le aziende del settore italiane. “Senza di lui l’azienda non ci pagava – ricorda Adama spiegando il meccanismo – si prendeva 50 euro dalla nostra paga mensile”. Per quale motivo? “Perché era lui che ci aveva trovato il lavoro e quindi gli dovevamo dare una quota”. Per questo Moumouni Tassembedo è stato condannato in primo grado a cinque anni di carcere per “intermediazione illecita” e per “sfruttamento del lavoro”. Ma il caporale aveva anche altre mansioni. “Sapevamo quando iniziavamo, alle sette del mattino, ma mai quando finivamo. Potevamo fermarci quando lui ci diceva che avevamo finito” ricorda Adama che è arrivato a lavorare anche fino a undici ore e mezzo di fila per cinque euro lordi all’ora. Il tutto per ottocento euro al mese di cui 200 in busta e 600 a mano, in nero. “Lavoravamo 24, 25, 26 giorni ogni mese, mentre sulla busta paga erano segnati soltanto 3 o 4 giorni di lavoro” racconta Adama. E quando provava a chiedere il perché di questo sistema “non facevano casino, ma ti potevano mandare via quando scadeva il contratto dicendo che non c’era più lavoro”. Un sistema di “caporalato grigio” come lo ha definito il pubblico ministero Carlo Longo e per il quale sono stati condannati in primo grado a cinque anni i titolari dell’azienda agricola Diego Castaldi e Marilena Bongiasca e a tre anni Andrea Depetris e Monica Coalova, responsabili di un macello di avicoli.
“Si tratta di una sentenza storica, perché certifica quello che noi sosteniamo da anni” spiega il rappresentante della della Flai Cgil che si è costituita parte civile del processo seguita dalla legale Valentina Sandroni. “Il caporalato è un reato di sistema – precisa l’avvocata – per esistere ha bisogno di un contesto sociale, politico ed economico che tolleri determinati comportamenti”. Per spezzare questo meccanismo il sindacato da anni gira nelle campagne per incontrare i lavoratori. “Suggeriamo ai braccianti di segnarsi su un foglietto le ore lavorate ogni giorno per poterle poi confrontare con quelle effettivamente segnate sulla busta paga” spiega Foderaro mentre scorre decine di fogli di lavoratori su cui sono segnati dei numeri. Otto, nove, nove e trenta, dieci. Sono queste le ore che i braccianti trascorrono nei campi per la raccolta della frutta. Qui la stagione deve ancora entrare nel vivo ma i primi braccianti sono già arrivati. Uno dei punti di riferimento è il centro della Caritas di Saluzzo. “Qui diamo una risposta i bisogni primari dei lavoratori come un pasto caldo, un medico, delle scarpe anti infortunistiche o delle giacche – racconta la coordinatrice dell’equipe di Saluzzo Migrante Virginia Sabbatini – ma l’obiettivo per poi arrivare alle tutele più importanti come quella di metterli in contatto con i servizi del territorio come parlare con un avvocato o un sindacalista per garantire i diritti. “Questa sentenza è importante perché finalmente si parla di questi temi anche nelle aule di un tribunale – conclude Sabbatini – è un punto di partenza per costruire un futuro dignitoso per queste persone e per questo territorio”.