Pubblichiamo un intervento del ricercatore Inapp Massimo De Minicis, esperto di mercato del lavoro*
Perché i ceti svantaggiati sono considerati, da una precisa tendenza culturale, individui tendenti ad approfittare in maniera sistematica di pubblici sussidi? L’immagine del divano come rifugio esistenziale contro la ricerca di un lavoro è diventata non solo retorica ma essenza ideologica del concetto di povertà. Ma diversi studi empirici ribaltano queste interpretazioni. Oggi estendere il reddito di cittadinanza e costruire un sistema di minimi salariali sono due interventi necessari e complementari per contrastare le nuove forme della povertà in Italia, dove la povertà lavorativa e famigliare vivono in una stessa dimensione.
In riferimento alla dimensione ideologica, la povertà come un difetto di personalità, un noto studio empirico di Eldar Sharif afferma una teoria innovativa riassumibile con due parole, mentalità della scarsità. Il comportamento delle persone cambia quando percepiscono un bene come scarso (tempo, denaro, cibo). L’orizzonte mentale si restringe, tutto è concentrato nell’immediatezza deprimente del bene carente e si perde la capacità di pensare a lungo termine, determinando conseguenze frustanti e limitando lo sviluppo del proprio capitale umano. I poveri, così, secondo la teoria di Sharif non assumono atteggiamenti poco attivi perché hanno un difetto di personalità, ma perché in quel contesto di scarsità chiunque assumerebbe gli stessi comportamenti. Quando la scarsità diminuisce, gli individui non solo sono razionalmente più efficienti, ma anche maggiormente attenti ai legami familiari, alla cura dei figli e più attivi nella ricerca di un lavoro o di una occupazione meglio retribuita.
Tra l’altro informazioni similari sono state riscontrate in molte altre analisi scientifiche e recentemente confermate nei dati Inapp-plus 2021 sui maggiori livelli di benessere, cura per i figli e auto-attivazione presenti nei beneficiari dell’RdC. Il primo elemento di una misura di contrasto alla povertà è, quindi, l’assegnazione di una somma di denaro che limiti la mentalità della scarsità, determinando notevoli effetti sul benessere psicofisico, sui legami famigliari e sul pieno sviluppo del proprio capitale umano. Evidenze che chiariscono come la povertà non è una mancanza di personalità, ma una mancanza di denaro. Oggi, quindi, chi sostiene che il limite del RdC sia quello di trattare in una stessa dimensione povertà e lavoro non tiene in considerazione che allo stato attuale non è più possibile diversificare il lavoro povero dalla povertà famigliare. La povertà ha assunto una nuova forma e le politiche di contrasto ne devono tenere conto.
Ricerche scientifiche qualitative sui beneficiari dell’RdC hanno evidenziato come i processi di impoverimento nascono proprio nel mercato del lavoro per diverse ragioni: rapporti di lavoro occasionali, informali, esternalizzazioni, bassi salari, pagamenti cottimali, relazioni lavorative formative gratuite. Mostrando come spesso sia proprio il lavoro che rende poveri in questo paese. Così alcuni percettori dell’RdC occupati nel periodo di percezione della misura o già occupati al momento della domanda non riescono a far uscire il proprio nucleo famigliare dal beneficio della misura perché working poors, in alcuni casi anche con contratti permanenti. Un indicatore prodotto da Eurostat evidenzia come nel 2019 il 12% dei lavoratori italiani era povero e la crisi pandemica ha aggravato tale dinamica. Il concetto di attivazione e condizionalità sembra così spesso un fenomeno a sé stante, autovalorizzante, qualcosa che deve essere fatto, al di là della sua efficacia e funzionalità per il destinatario, che impegna il beneficiario in continui percorsi formativi, orientativi, amministrativi spesso distanti dal suo curriculum e spesso non funzionali a produrre risultati occupazionali efficaci e non transitori. Su questo fenomeno dovrebbe essere aperta una seria riflessione sulla natura e le forme della condizionalità, come sta avvenendo da anni in molti paesi europei.
L’RdC ha, cosi, non solo mostrato una parte dell’enorme dimensione del lavoro povero in Italia – i working poors in una condizione di povertà assoluta – ma ha intralciato anche quell’equilibrio tra domanda e offerta di lavoro tipico italiano basato spesso su bassi salari, pagamenti cottimali, lavori formativi gratuiti o relazioni informali (vedi Figura 1).
Dinamica che spesso coinvolge anche giovani laureati che in una fase di percorsi di formazione ulteriori per sviluppare il proprio capitale umano devono ricorrere a lavoretti inconsistenti a livello salariale (stagionali, informali) che non considerano in termini identitari, vivendo una sorta di negazione della dimensione lavorativa precaria a cui sono obbligati per sviluppare le loro vere aspirazioni professionali. In tal senso tra le molte funzioni svolte dall’RdC c’è stata anche quella di aver in parte sostituito l’assenza in Italia di forme di sostegno al reddito per i giovani inoccupati per inserirsi con dinamiche libere e meno costrittive nel mercato del lavoro, come il reddito di inserimento in Germania.
Così quella funzione multidimensionale dell’RdC, sostenere il lavoro e contrastare la povertà, molto criticata, è stata in realtà il suo elemento valorizzante e innovativo. Senza tale misura, in assenza di altri strumenti di contrasto al lavoro povero (trasferimenti diretti alle famiglie es. in work benefit), nessun sostegno reddituale ci sarebbe stato per i working poors. Estendere l’RdC e costruire un sistema di minimi salariali sono oggi due interventi necessari e complementari. Non a caso la Spagna è intervenuta, durante la fase pandemica, per frenare l’aumento delle nuove dimensioni della povertà in modo innovativo, integrando due politiche: la definizione di un reddito minimo vitale molto più esteso di quello italiano e aumentando il salario minimo legale.
m.deminicis@inapp.org
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