La pressione sul debito pubblico italiano è il risultato di una tempesta perfetta che si prepara da mesi, anche se a rompere gli argini sono stati i "mancati annunci" della Bce sui dettagli di un eventuale nuovo scudo anti spread. La reticenza su come funzionerà (tornerà in campo il Mes?) è diventata l'alibi perfetto per vendere a man bassa titoli del Paese più fragile, che mentre l'economia rallenta sta per restare senza il paracadute dei maxi acquisti da parte dell'Eurotower. Monti: "Il Paese si è messo da sé in questa situazione"
Dopo la fiammata di venerdì i titoli di Stato del Paese con il debito pubblico più elevato dell’Eurozona restano sotto pressione. Per acquistare Btp gli investitori sono arrivati lunedì a chiedere un rendimento del 4%, il tasso più alto dal dicembre del 2013. Il differenziale rispetto ai Bund tedeschi si è allargato in mattinata fino a 248 punti base, ai massimi dall’aprile 2020 quando l’Italia era in pieno lockdown, chiudendo a 237. Le banche, che hanno a bilancio 400 miliardi di titoli pubblici il cui valore è inversamente proporzionale ai tassi, hanno perso terreno in Borsa zavorrando Piazza Affari in una seduta negativa per tutti i listini Ue. È il risultato di una tempesta perfetta che si prepara da mesi, anche se a rompere gli argini sono stati i “mancati annunci” della Banca centrale europea dopo la riunione di giovedì scorso. Cioè l’assenza di dettagli su un nuovo piano anti spread, sostenuto dai governatori del Sud Europa e della Francia ma su cui la Germania frena. La reticenza su come funzionerà è diventata un alibi perfetto per vendere a man bassa soprattutto (ma non solo) titoli del Paese più fragile, che sta per restare senza il paracadute rappresentato dai maxi acquisti dell’Eurotower iniziati nel 2015 e intensificati durante la pandemia e le cui sempre evocate riforme strutturali procedono a rilento. Non a caso una portavoce della Commissione Ue lunedì mattina ha invitato l’Italia ad “attuare con determinazione” le riforme e gli investimenti previsti dal Pnrr.
Torniamo alle cause di lungo periodo e comuni a tutta l’Eurozona. L’invasione russa dell’Ucraina ha soffiato su un‘inflazione energetica già in rialzo e messo pressione sulla Banca centrale europea perché invertisse la rotta rispetto alle politiche ultraespansive degli ultimi anni. Che significa aumento dei tassi di interesse di riferimento (ora sottozero) in modo da raffreddare la domanda e contenere la cavalcata dei prezzi. La Fed ha iniziato a farlo all’inizio di maggio e mercoledì è attesa un’altra stretta energica, dopo che a maggio l’inflazione ha toccato i massimi da 40 anni. La Bce si sta avviando alla normalizzazione in maniera più graduale: a luglio, come annunciato la settimana scorsa da Christine Lagarde, alzerà i tassi di 0,25 punti base, a settembre probabilmente di altri 0,50. Sperando che non sia troppo tardi e soprattutto che in uno scenario pesantemente segnato dalle conseguenze del conflitto il “raffreddamento” non diventi recessione, come temono in molti, considerato che ad innescare i rialzi sono stati appunto i rincari dell’energia e in Europa non pare che l’economia stia andando su di giri per il tramite degli aumenti salariali. L’altro annuncio, anch’esso atteso, ha riguardato la fine sempre a partire da luglio del quantitative easing e degli acquisti straordinari di titoli con il piano pandemico Pepp.
A scatenare la speculazione è stato soprattutto il fatto che, prima della riunione del board, si era diffusa la convinzione che dall’Eurotower sarebbero arrivati dettagli operativi su come intervenire, al bisogno, contro quella che gli addetti ai lavori chiamano “frammentazione“. Cioè la deriva dei Paesi più deboli, la pretesa da parte dei mercati di rendimenti sempre più alti per rifinanziare il loro debito fino a renderne difficile la sostenibilità. Fino alla rottura dell’euro, per essere chiari: esattamente il rischio contro il quale un decennio fa, nel 2012, l’allora presidente della Bce Mario Draghi lanciò il whatever it takes e presentò lo strumento straordinario delle Outright Monetary Transactions con cui Francoforte avrebbe contrastato i tentativi di far collassare la moneta unica. Un’arma mai utilizzata, anche perché quegli acquisti di titoli di Paesi in “grave difficoltà macroeconomica” portavano con sé la condizionalità di uno scomodo memorandum con il Mes.
Ecco: da Lagarde i dettagli su come dovrebbe funzionare stavolta (tornerebbe in campo il Mes, la cui riforma peraltro non è stata ancora ratificata dal Parlamento italiano?) non sono arrivati. L’economista francese, che deve fare i conti con le posizioni dei “falchi” in consiglio, si è limitata a dire che “se necessario, come abbiamo dimostrato in passato, siamo pronti a dispiegare un aggiustamento degli strumenti esistenti, o nuovi strumenti” ma “non c’è alcuno specifico livello dei tassi delle obbligazioni o dei prestiti, o degli spread sui bond che attiverà questo o quell’intervento”. L’opzione di avere a disposizione un aiuto di questo tipo, va detto, sarebbe gradita non solo a Roma ma anche a Madrid, Lisbona e Parigi, i cui differenziali di rendimento rispetto ai Bund tedeschi si sono notevolmente allargati anche se non nella stessa misura di quelli dei Btp. Ma di sicuro in un contesto di rallentamento economico l’Italia è estremamente a rischio, con un debito gonfiato dalle spese pandemiche e la difficoltà di ridurre il rapporto tra il debito e il pil nella misura prevista prima della guerra.
Se diverse forze politiche hanno attaccato Lagarde parlando di decisioni sbagliate, intempestive o addirittura attacchi alla Penisola. nei fatti il resto – la condizione di debolezza che espone alle vendite – è tutto “fatto in casa”, come commenta sul Corriere l’ex premier e commissario Ue Mario Monti: “A venerdì lo spread era a 234 punti, ben superiore a quello francese (62), spagnolo (130), portoghese (126), cipriota (165) e poco più basso di quello greco (288). Ma al livello attuale il nostro spread è giunto dopo una continua salita iniziata dal minimo di 90 del febbraio 2021, alla fine del governo Conte”. Le cause? “Dal 2015 a oggi le riforme, con varianti da governo a governo, le riforme strutturali sono state spesso ritardate e annacquate, quando non si è cercato di cancellare quelle introdotte. La condiscendenza europea sui disavanzi si è spesso tradotta in spesa corrente (bonus in primis) più che in investimenti pubblici. Lo “scostamento di bilancio”, introdotto come eccezionale nella riforma costituzionale del 2012, è ora routine”. Risultato: “Con uno spread tutto ‘fatto in casa’, e in assenza di crisi nell’eurozona, non siamo nelle condizioni più favorevoli per pretendere che la Bce si allontani dalla rotta per favorire un Paese che si è messo da sé in questa situazione, pur fruendo di un governo particolarmente autorevole e dopo essere stato il Paese meglio trattato dall’Europa da diversi anni a questa parte (….). E’ un vero peccato che l’Italia debba entrare in questa nuova fase delle politiche europee senza aver tratto tutti i benefici possibili dalle eccezionali facilitazioni offerte fin qui”.