Il New York Times lo aveva definito il Faulkner israeliano. Ma lo scrittore Abraham Yehoshua, morto ad 88 anni la scorsa notte in un ospedale di Tel Aviv, non era proprio il tipo da accentramento assolutista letterario in salsa americana, anzi. Grazie all’involontaria concomitanza dell’affermarsi dei colleghi Amos Oz e successivamente di David Grossman – una sorta di laica santissima trinità del romanzo israeliano -, Yehoshua aveva spostato l’asse narrativo e politico, e trasferito una sorta di stringente psicoanalisi individualnazionale, tutta all’interno del perimetro territoriale della contesa israelopalestinese. Probabile che molti lettori italiani lo ricorderanno per il suo romanzo più articolato e riuscito, L’amante, scritto nel 1977 ma pubblicato in Italia oltre dieci anni dopo grazie a Einaudi. È proprio nel dipanarsi naturalmente misterioso di un doppio inseguimento sentimentale affettivo, qualcosa di vagamente schnitzleriano (per capire che c’è tanta psicanalisi nella letteratura del nostro quasi fosse un mitteleuropeo), appena dopo la guerra del Kippur del ’73, che Yehoshua delinea i tratti di un approccio singolarmente viscerale all’individualità che si mescola continuamente con le frammentarie radici di due popoli e due nazioni: Israele e Palestina. L’ipnotica dolce e lancinante cantilena di Adam, proprietario di un’officina all’inseguimento mentale e psicologico della silente e sfuggente, probabilmente sconosciuta moglie Asya, e il contemporaneo approccio alla vita della 15enne Dafne, figlia dei due, che sfiora l’esistenza e il corpo fisico di Na’im “l’arabetto”, il ragazzino che lavora nel garage del padre, sono l’architrave di avvicinamento/allontanamento di una recherche pacificata costante e infinita tra singolo e società, emblema di una letteratura che sa legare con veridicità morale microcosmi e macrocosmi. Difficile trovare tra gli undici titoli successivi di Yehoshua qualcosa che possa eguagliare questa orchestrazione storico minimale di una terra contesa e sfibrata da decenni di guerra. Uno scavo ulteriore verso uno spirito ebraico scisso e disunito viene forse da un altro eccellente romanzo come Viaggio alla fine del millennio (1997). Questa dualità identitaria storico religiosa viene collocata lontana nel tempo, attorno all’anno mille, quasi per congelare e meglio osservare, quella conflittualità interna al’ebraismo israeliano ancora oggi impossibile da sintetizzare in un unicum nazionale. Del resto Yehoshua a livello politico e pubblico aveva sempre sostenuto assieme all’amico Oz, la cosiddetta “soluzione dei due stati” abbozzata già dopo la fine della guerra araboisraeliana del ’67, con l’ipotesi di uno stato di Israele in sicurezza e a fianco uno stato indipendente di Palestina. Un anelito pacifista e democratico che negli anni settanta/ottanta poteva concretamente rappresentare metà della società israeliana, legato molto allo sviluppo al laburismo di quel paese e alla figura di Yitzhak Rabin. Visione disintegrata con l’uccisione di Rabin e affievolitasi nel tempo, diventata verbo laico e illuminato di una minoranza. Anche La sposa liberata (pubblicato nel 2018), ma ambientato appena dopo la lacerazione non rimarginabile dell’assassinio di Rabin, sembra essere ancora una volta un tentativo di suppurazione di ansia individual-sentimentale del protagonista, un professore di storia, che ancora una volta trova aiuto in una pacificazione concreta con il mondo arabo circostante. Un desiderio di unità nella moltitudine delle differenze che molti biografi hanno ricondotto alle origini familiari di Yehoshua che, a differenza di Oz e Grossman, le cui radici sono ashkenazite o europee, sono sefardite o mizrachi, quindi sprofondate nel Mediterraneo e nel Nord Africa. Padre greco e madre marocchina, per una visione sociale che una volta gli fece affermare: “Gli arabi non sono nostri nemici, ma cugini (…) sono più una specie di famiglia, con tutti i problemi che comporta una famiglia. Dobbiamo convivere con loro”. Tutti i romanzi di Abraham Yehoshua sono pubblicati in Italia da Einaudi.
Cultura
“Prima o poi siamo tutti il peso morto di qualcuno” specie nel mondo del lavoro: emarginazione, razzismo e disparità tra uomo e donna in “Safari Pomodoro”
Cultura
Scandali finiti, ora la Cultura può pensare ai musei? Dal parco del Colosseo al Palazzo Reale di Napoli: quasi un terzo è senza direttore
Cultura
È morto l’artista Frank Auerbach, uno dei più importanti pittori figurativi del dopoguerra. Era scampato all’Olocausto
Cultura
Morituri, tutte le fake news sui gladiatori. Ecco il libro sulla vera storia dei combattenti nelle arene romane
Gentile lettore, la pubblicazione dei commenti è sospesa dalle 20 alle 9, i commenti per ogni articolo saranno chiusi dopo 72 ore, il massimo di caratteri consentito per ogni messaggio è di 1.500 e ogni utente può postare al massimo 150 commenti alla settimana. Abbiamo deciso di impostare questi limiti per migliorare la qualità del dibattito. È necessario attenersi Termini e Condizioni di utilizzo del sito (in particolare punti 3 e 5): evitare gli insulti, le accuse senza fondamento e mantenersi in tema con la discussione. I commenti saranno pubblicati dopo essere stati letti e approvati, ad eccezione di quelli pubblicati dagli utenti in white list (vedere il punto 3 della nostra policy). Infine non è consentito accedere al servizio tramite account multipli. Vi preghiamo di segnalare eventuali problemi tecnici al nostro supporto tecnico La Redazione