Una valanga di “non ricordo”, di ricordi confusi e annebbiati. Una ricostruzione gelida, senza alcun sintomo di pentimento. La confessione resa nella caserma dei carabinieri di Mascalucia da Martina Patti, la 23enne autoaccusatasi dell’omicidio di sua figlia Elena Del Pozzo, arriva all’improvviso poco prima dell’ora di pranzo dopo quasi ventiquattr’ore di bugie e messinscene. Ripercorre le ultime ore di vita della bambina di quasi 5 anni, poi quando deve rimettere insieme i pezzi dell’omicidio la confessione si fa sfumata: “Quando ho colpito Elena avevo una forza che non avevo mai percepito prima. Non ricordo la reazione della bambina mentre la colpivo, forse era ferma, ma ho un ricordo molto annebbiato”, dice agli investigatori la 23enne studentessa di Scienze infermieristiche. E ripete: “Non ricordo cosa sia passato per la mia mente quando ho colpito mia figlia, anzi posso dire che non mi è passato nessun pensiero, era come se in quel momento fossi stata una persona diversa”.

Sette coltellate alla schiena e al collo in un campo, dopo un normale rientro a casa dall’asilo: “Quando ho preso mia figlia all’asilo siamo andate a casa mia – racconta – Elena ha voluto mangiare un budino poi ha guardato i cartoni animati dal mio cellulare. Io intanto stiravo… in serata saremmo dovute andare da un mio amico per il suo compleanno ed Elena era contenta… poi siamo uscite per andare a casa di mia madre, ma poi ho rimosso tutto”. È allora che la madre porta la figlia nel campo dove verrà ritrovata, su sua indicazione, martedì mattina, dentro cinque sacchi della spazzatura, nascosta alla meno peggio con del terriccio. “Non ricordo se ho portato con me qualche oggetto da casa. All’incirca erano le 14.30, siamo andate nel campo che ho indicato ai carabinieri”, mette a verbale assicurando che “era la prima volta che portavo la bambina in quel campo”. E aggiunge: “Ho l’immagine del coltello, ma non ricordo dove l’ho preso. Non ricordo di aver fatto del male alla bambina, ricordo solo di aver pianto tanto”.

Forse, sostiene Patti, “ho capito che la bambina era morta e non sapevo che cosa fare. Subito dopo ho chiamato il padre di Elena, ma ero così agitata che non capivo cosa dicessi… quindi sono andata a casa dei miei genitori, ero molto confusa e quello che era successo non mi sembrava reale”. Confusione anche sull’arma del delitto: “Non ricordo dove ho messo il coltello… prima di andare dai miei genitori mi sono cambiata, ma i vestiti che indossavo quando ero con la bambina non erano sporchi di sangue, ero macchiata solo nelle braccia e ricordo che piangevo forte…”. Quindi le chiamate e il falso allarme per il rapimento: “Quando ho incontrato i miei genitori e Alessandro (il padre della bambina, ndr) ho inventato la storia che ci avevano fermato e che avevano rapito la bambina sfruttando la storia delle minacce ad Alessandro”. Da quel momento seguiranno quasi ventiquattr’ore di bugie, prima del crollo.

Un omicidio, sostengono i pm della procura di Catania, maturato in un “triste quadro familiare” costituito “da due ex conviventi che, a prescindere dalla gestione apparentemente serena della figlia Elena, avevano allacciato nuovi legami e non apparivano rispettosi l’uno dell’altro”. Patti soffriva della nuova relazione del padre della piccola: un legame che stava funzionando e che rendeva felice anche la piccola. La 23enne avrebbe così avuto una crisi di abbandono, temendo di perdere anche la figlia, e per questo avrebbe cercato di rallentare e ostacolare gli incontri con i nonni paterni e la famiglia del padre. Che dal canto loro accusavano esplicitamente la donna di picchiare la piccola e di far di tutto per ‘incastrare’ l’ex. Beghe e angherie alimentate giorno dopo giorno fin quando non si è arrivati all’omicidio.

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