Denunciate. Denunciate. Denunciate. Questo viene ripetuto come un mantra dalle istituzioni alle donne vittime di violenza di genere. Un mantra che si trasforma in condanna a morte quando chi dovrebbe intervenire non lo fa in modo tempestivo. Le conseguenze sono gravissime, parliamo di morte, di donne uccise, di femminicidio.
Due giorni fa a Cavazzona, una piccola frazione di Castelfranco Emilia, nel mio territorio in provincia di Modena, due donne – Gabriela, la madre e Renata, la figlia, di 47 e 22 anni – sono state trucidate a colpi di arma da fuoco. A sparare sarebbe stato un uomo, marito e patrigno delle vittime. Il giorno dopo l’omicidio si sarebbe dovuta tenere l’udienza di separazione.
Quello che però deve fare riflettere, o meglio rabbrividire, è che cinque denunce per maltrattamenti, minacce e stalking sono andate a vuoto. Cinque denunce non hanno convinto gli inquirenti della pericolosità dell’uomo. Si parla di offese di ogni genere, di vessazioni quotidiane, di violenze psicologiche, fisiche ed economiche continue ed abituali e di armi in casa. Gabriela, tuttavia, non si era arresa e aveva presentato opposizione alle richieste di archiviazione, chiedendo di essere tutelata con la prosecuzione delle indagini, richiedendo l’ascolto degli assistenti sociali che seguivano il caso e del figlio minorenne, altra vittima di questa gigante tragedia, che si trovava in casa quando il padre ha sparato alla madre e alla sorella. Richiesta di archiviazione cosa significa? Significa che Gabriela non è stata creduta. Significa che nessuno le ha creduto.
Non è un caso isolato purtroppo: secondo i dati Istat nove donne su dieci non denunciano le violenze e le molestie subite. E perché? Perché ancora oggi, nel 2022, le donne hanno paura di non essere credute, come è accaduto a Gabriela. Hanno paura di essere colpevolizzate, di essere considerate delle cattive madri e mogli, di essere perseguitate, hanno il terrore di perdere la responsabilità genitoriale sui figli con accuse aberranti di alienazione parentale, accusate di essere loro a inculcare nei figli una valutazione negativa sul padre violento. C’è l’incognita, poi, di non sapere cosa succede dopo la denuncia, soprattutto se non c’è una indipendenza economica.
Tutto questo succede nella dura realtà di una violenza che troppo spesso viene derubricata in conflittualità tra i coniugi e quindi “risolvibile” tra le mura domestiche. Sono quarant’anni che si scrivono leggi sul contrasto alla violenza di genere, da ultimo il cosiddetto Codice rosso, legge 69 del 2019. Ma nonostante le leggi ci siano, ad oggi sono 40 i femminicidi avvenuti nei primi 6 mesi dell’anno, quasi uno ogni 4 giorni: mogli, ex fidanzate, sorelle, figlie decedute per mano di un familiare o un partner. Dal 2000 ad oggi oltre 3400 donne sono state uccise. Un massacro. E la scia di sangue non accenna a fermarsi.
Una settimana fa a Vicenza Zlatan Vasiljevic, 42 anni, ha raggiunto l’ex moglie Lidia Miljkovic vicino al luogo di lavoro, ha atteso che scendesse dalla sua auto e l’ha colpita con numerosi colpi di pistola, lasciandola agonizzate sull’asfalto. Ma non si è fermato a questo. Dopo averla uccisa è fuggito nella sua Audi A3 nera con la compagna, Gabriela Serrano, 36enne residente a Rubano in provincia di Padova. Vasiljevic ha ucciso anche lei, prima di togliersi la vita. L’uomo era già stato arrestato per violenze sulla moglie.
L’ordinanza emessa dal Gip del Tribunale racconta una scia di vessazioni che inizia nel 2011. Nella stessa si legge: “La perseveranza dimostrata dal Vasiljevic, unitamente all’abuso di alcol e alla sua incapacità o comunque alla mancanza di volontà di controllarsi pure in presenza dei figli minori, costretti ad assistere alle continue vessazioni ai danni della madre consente di ritenere altamente verosimile il verificarsi di nuovi episodi di violenza”. Il giudice parla anche di “tendenze controllanti e prevaricatorie dimostrate dall’indagato, che potrebbero con ogni probabilità subire un’escalation in termini di gravità e condurre a tragiche conseguenze”.
Così è stato. Allora io mi chiedo perché quest’uomo poi sia stato rimesso in libertà. Non solo, tre settimane fa è stata emessa la sentenza di separazione che stabiliva la cessazione dell’affido esclusivo dei figli di 13 e 16 alla madre. Per ogni aspetto si sarebbe dovuto mediare con il padre: scuola, tempo libero, medicine. Con quel padre violento.
Quest’altra storia, piena di sangue e orrore, è esemplare di tutto quello che non funziona nel sistema giustizia. Come si può consentire ad un violento, condannato, di tornare ad avere l’affido sui figli? Come si può lasciare a piede libero una persona così pericolosa? Chi ha fatto queste perizie che solo tre settimane fa restituivano a questo omicida la dignità di genitore? Ecco, io non so adesso se i giudici, gli assistenti sociali e gli psicologi coinvolti avrebbero il coraggio di guardare negli occhi i due figli di Lidia, o il figlio minore di Gabriela, non so davvero se reggerebbero quello sguardo. Tragedie del genere non dovrebbero capitare, semplicemente perché c’erano tutti gli elementi per intervenire, per evitare l’orrore.
Se non siamo riusciti ad evitarlo, almeno, domandiamoci il perché. E impariamo da questi orrori dal momento che la violenza di genere è anche e soprattutto un problema culturale, che si porta dietro una dote pesante di patriarcato e misoginia. Sono fermamente convinta, per tale ragione, che sia necessario un immediato cambiamento culturale a partire dai primi banchi di scuola.
Ci credo talmente tanto che ho depositato una proposta di legge per introdurre l’educazione affettiva e sessuale in modo sistemico a livello scolastico: per fornire un alfabeto gentile delle emozioni, per insegnare a gestire la rabbia, un rifiuto, per educare al rispetto della persona in generale e alla parità di genere.
Tutto questo aiuterà ad avere da adulti comportamenti responsabili e relazioni sane per estirpare fin dall’origine quei germi dell’intolleranza che degenerano in pregiudizi, stereotipi e discriminazioni e nel peggiore dei casi nella violenza.
E’ fondamentale, inoltre, che tutti gli operatori che si occupano di violenza di genere, quali avvocati, magistrati, servizi sociali, forze dell’ordine siano formati, specializzati, devono essere in grado di saper leggere anche il silenzio e soprattutto devono fare rete tra loro in modo che la vittima non si senta mai sola. Bisogna lavorare anche sul maltrattante con percorsi seri di recupero, poiché spesso chi crea il problema non ha la consapevolezza di essere il problema e soprattutto perché questi individui prima o poi escono dal carcere e se non vengono riabilitati tornano a porre in essere comportamenti violenti e a fare del male ad altre vittime. Bisogna ricordare che le donne quando denunciano non chiedono vendetta ma chiedono di essere credute, di essere tutelate, chiedono una alternativa alla violenza. Non dimentichiamolo mai.