"Denazificazione", rimandi all'Armata Rossa, citazioni di Lenin e dibattiti sulla Resistenza: come qualcosa che rimanda al Novecento (la guerra) è stato raccontato con gli strumenti comunicativi del Duemila
La guerra è qualcosa che rimanda al XX secolo e che oggi stranisce. Dal XX secolo provengono anche alcuni elementi centrali della rappresentazione del conflitto di queste settimane, a partire dalla “denazificazione”, fino alle varie interpretazioni del passato sovietico e ai richiami alla guerra fredda. La storia viene distorta a uso e consumo della sua mediatizzazione per creare preventivamente l’opinione pubblica “adeguata”. Di queste dinamiche ilfattoquotidiano.it ha parlato con Alessandro Colombini, storico e autore di Lezioni di nuoto, una newsletter sull’esperienza umana nel XX secolo, e di recente di un contributo per Warlore. Aesthetics and cultural icons of the Russia-Ukraine war, un libro su propaganda, simboli ed estetiche della guerra russo-ucraina, curato da Mattia Salvia (Iconografie XXI) e Bradley Davis (Propagandopolis).
Il primo tema che emerge è proprio quello della distorsione storica, che si reitera anche all’interno delle diverse fasi della propaganda – ammesso e concesso che se ne possano identificare. Di fatto, mentre il conflitto proseguiva e al netto di aperture apparenti e nette chiusure al dialogo, sembra che la rappresentazione della guerra abbia continuato a viaggiare sui due binari del “bene assoluto” e del “male assoluto”, dall’una e dall’altra parte, nel tentativo di rappresentare un nemico da cancellare nella sua interezza. Sin dall’inizio, entrambi i presidenti (Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky) – dice Colombini – hanno costruito la demonizzazione dell’avversario e la giustificazione dell’offensiva o l’assolutizzazione di un paradigma vittimario, su continui richiami al XX secolo, facendone un uso totalmente politico. Ad esempio, Putin ha chiaramente utilizzato una retorica tutta riferita al secolo precedente per enfatizzare una presunta “unità storica dei russi e degli ucraini” e confutare l’idea di Lenin di un possibile perseguimento della costruzione di una comunità nazionale ucraina con identità etno-culturali specifiche. La stessa narrazione sull’“operazione speciale” è stata introdotta da un discorso costruito sulla memoria della grande guerra patriottica e questo è stato un passaggio utile per costruire un racconto evocativo sulla “denazificazione”. Ma storicamente è tutto diverso, dal contesto agli attori in gioco oggi.
Nondimeno, Zelensky ha tradotto tanta della narrazione del conflitto attraverso toni tipicamente novecenteschi e richiamando temi e soggetti radicati nel passato occidentale, ma riproposti in chiave fortemente emotiva e assai poco contestualizzata. Si pensi alla “nuova cortina di ferro”, alla ripresa delle parole di Churchill e così via. “Poco storico” è pure il richiamo sentimentale all’impossibilità di essere nazisti in Ucraina, con le stesse parole di Zelensky: “Come fa un popolo che ha perso otto milioni di vittime per mano dei nazisti a essere nazista? E come faccio io ad essere un nazista? Chiedetelo a mio nonno, fante dell’Armata Rossa durante la Seconda guerra mondiale”. Una simile semplificazione però non permettere di prendere in considerazione il tema del collaborazionismo ucraino ed il suo ruolo nello sterminio degli ebrei in quel territorio, proprio come va in evidente contrasto con il recupero di figure come quella di Stepan Bandera, legittimato come eroe nazionale in modo piuttosto trasversale e che storicamente può essere giudicato solo come un collaborazionista nazista. La costruzione della rappresentazione di questo personaggio, non più come collaborazionista filonazista ma come eroe nazionalista e difensore della nazionalità ucraina, serve in parte a creare miti fondativi in funzione anti russa a uso e consumo politico. Appare però rischioso servirsi di simili figure, legittimando non troppo implicitamente tendenze ultranazionaliste, radicate nell’esperienza storica del nazismo e sedimentatesi nella società civile contemporanea. Come sottolinea anche Colombini, avrebbe forse senso riflettere in senso più lato sulle cifre di questo nazionalismo e sul suo carattere dirimente all’interno di molti dei Paesi ex sovietici, come anche Ungheria e Polonia, attraversati da dinamiche similari. Forse un’eccezione sostanziale in Ucraina è quella relativa al riconoscimento istituzionale del battaglione Azov nelle forze armate ucraine e al ruolo che sta assumendo nella guerra pur essendo questo espressamente filonazista.
La distorsione storica e l’uso politico della storia durante questa guerra hanno riguardato anche gli altri attori del conflitto, per chi si schiera e come si schiera e per chi questo schieramento lo deve rappresentare. Ad esempio, serve “costruire consenso” intorno al tema dell’invio delle armi. Penso al contesto italiano e penso alla marea di paragoni con la Resistenza. Le ambiguità che emergono da tali narrazioni – sottolinea Colombini – portano a un posizionamento morale: “Siccome la Resistenza in Italia è stata una cosa buona serve armare la resistenza ucraina. Eppure, questa logica non risponde ad alcun senso storico, la diversità delle esperienze non permette simili appiattimenti e preclude una reale discussione sull’invio o meno delle armi, riducendo inoltre complessità del tema a un aut aut tra la possibilità di essere buoni se si procurano le armi agli ucraini e cattivi se non lo si fa”. Ne ha recentemente parlato anche Alessandro Portelli, storico, sottolineando la differenza delle esperienze ma anche la differenza politica delle valutazioni. Ad esempio: quando gli Alleati fornivano armi ai partigiani erano già in guerra con la Germania e quella guerra la stavano vincendo e, particolare non secondario, erano già in Italia, ed erano loro, non gli invasori tedeschi, che bombardavano le nostre città occupate col fine di far durare di meno la guerra. Tuttavia, noi non siamo già in guerra con la Russia e mancano le premesse contestuali per assumere acriticamente che l’invio di armi abbrevierà il conflitto anziché prolungarlo, incaricando gli ucraini di fare la guerra con le nostre armi per nostro conto. Al contempo, rimarcando l’enfasi morale della questione più che pragmatica, mentre paragoniamo chi si arruola per combattere col battaglione Azov alle Brigate Internazionali di Spagna, gli italiani che sono andati a combattere nel Rojava li teniamo sotto sorveglianza di polizia perché possibili minacce all’ordine pubblico.
Rimanendo sul nesso passato-presente è singolare guardare oggi alle forme della sua mediatizzazione: qualcosa “del XX secolo” raccontato con gli strumenti comunicativi del XXI, dai podcast ai meme. Come scrive Colombini in Warlore (trad. it infosubmarine): “Questo approccio alla simbologia e alla retorica sovietica, che trova la sua massima espressione nel carro russo che batte bandiera dell’Urss (a fine febbraio, un carro armato russo marciando verso Kyiv, mostrava in bella vista una bandiera dell’Urss, nda) è permeato nel contesto ucraino già dal 2014 come fondamento propagandistico delle entità separatiste filo-russe, sempre generose di falci e martello e rimandi alla mitologia sovietica. Insomma, i cartelloni visti a Doneck nel febbraio 2022, con l’Armata Rossa sovietica e l’esercito russo in due foto speculari con funzione di continuità e la scritta ‘abbiamo vinto nel 1943, vinceremo oggi’, fanno parte di un apparato propagandistico che già nel 2014 arricchiva documentari di Vice News con frasi vetero-sovietiche diventate presto meme: ‘Cosa avrebbe fatto Vladimir Ilič [Lenin] in questa situazione?’, si domandano dei separatisti della Repubblica Popolare di Doneck, con l’inquadratura che si sofferma su di uno stendardo raffigurante il leader bolscevico. ‘Il buon Vladimir Ilič avrebbe sparato a tutti qui’, risponde uno”. E ancora: “Memorabile il tweet di @Ukraine, il più virale di tutto il conflitto, con Hitler che accarezza teneramente Putin integrato dalla scritta ‘Questo non è un meme, ma la nostra e la vostra realtà ora’. Singolare anche pensare alla modifica apportate nella Hate Speech Policy – la politica editoriale che dovrebbe bloccare i messaggi d’odio in base a specifiche parole o circostanze – di Meta, holding proprietaria di Facebook , Instagram, WhatsApp e Messenger: dal 10 marzo è stata introdotta una modifica temporanea per gli utenti in Armenia, Azerbaijan, Estonia, Georgia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Russia, Slovacchia e naturalmente Ucraina. Sulla base di questa si può scrivere morte ai russi, purché si intenda soldati, o inneggiare al Battaglione Azov (come già detto unica armata militare dichiaratamente neonazista d’Europa) purché nel contesto della difesa ucraina.
Ad ogni modo, sono passati più di un centinaio di giorni dallo scoppio del conflitto e quello che continua a emergere torna alla distorsione della storia e al suo uso politico, da vittime e da carnefici, in un circolo vizioso tra visioni morali e dicotomie assolute, che ostacolano una comprensione più profonda del conflitto, delle sue effettive radici storiche, della sua dimensione nella contemporaneità e forse, di una sua possibile risoluzione, oltre la logica di una polarizzazione acuta e continua.