A Tommaso Labranca (e a Valerio Zurlini) Rimini di Ulrich Seidl – in queste ore in anteprima italiana al Biografilm Festival di Bologna – sarebbe piaciuto assai. Questa storia esteticamente kitsch e tragicamente decadente raccoglie e amplifica in tonalità crepuscolare e definitiva il cortocircuito espressivo che il cineasta austriaco propone fin dai tempi di quel Canicola (2001) che tanto stuzzicò il mondo dei festival vent’anni orsono. Richie Bravo (Michael Thomas, una sorta di Depardieu da comitiva con pullman) è un omone verso i sessanta, capelli lunghi biondi, avvinazzato, che gronda chincaglierie dorate, pantalonazzi bianchi e stivaletti elvisiani. Canta su basi registrate dei brani sentimentali della tradizione popolare austriaca in sbiancati e vuoti alberghi riminesi durante l’inverno. Possiede un villone – Villa Bravo – dove vive solo e dove esplode il kitsch in una tavernetta studio musicale con il suo poster alla parete a braccia aperte. Richie, però, arrotonda da gigolò con signore e turiste austriache nel tipico Seidl touch dove il sesso si compie goffo e patetico, simulacro di atti e perversioni tradizionali (l’anziana in guepiere, per dire). Scorrono così gli scarti tra gli interni di camere da letto alberghiere abbigliate con quell’essenzialità triste della Romagna, quelli spigolosi e impersonali della casa di cura austriaca dove il padre malato e rimbambito di Richie vive malinconicamente i suoi ultimi giorni, e gli esterni rivieraschi dove Richie passeggia silenzioso e claudicante, perfino sotto la neve.
Si diceva, di una Prima notte di quiete dove al posto del cappotto di cammello di Alain Delon, oltre a non esserci Delon, c’è un pellicciotto con pelle scuoiata fino in fondo ai piedi, indossato dal protagonista, più da indiano Sioux che da ubriacone oltre Brennero. Un dettaglio che sembra la summa del senso della messa in scena del cinema di Seidl dove ogni dimensione possibile del discorso e dell’emotività umana (la morte, i rapporti famigliari, il sentimento, la sopravvivenza) perde ogni classicità poetica riconoscibile e confortante, per assumere il gusto caustico di un paradosso estetico mai ironico e addirittura tendente ad un documentarismo drammatico. La macchina da presa di Seidl poi, è sempre fissa in un punto che passa dall’impervio (l’angolazione diagonale alto basso per inquadrare Richie e le signore a letto a fare sesso) all’elogiativo kitsch (la figura intera o il piano americano frontale di Richie sul palco spoglio per esaltare i suoi poveri ma onesti fasti canori). Infine c’è tutto un sottotesto razziale, sempre più cupamente introverso e intollerante, sorta di scontro/incontro tra un protagonista da mitteleuropa folk decadente e il brulicante serpeggiare di figure umane nerastre, barbute, infoulardate, che minano e si innestano nel tessuto del quotidiano. Qui è la figlia di Richie – leggasi rapporto incompreso padre/figlia – a farli penetrare a Villa Bravo. Ad ogni modo, come per ogni titolo di Seidl, tutto ciò che di primo acchito pare ostentatamente provocatorio poi si trasforma in qualcosa di terribilmente sociologico in purezza. Questo Rimini, insomma, è tutto da vedere.