Nel merito della scelta omicida di quei genitori che uccidono la prole, scelta che spazza via qualsiasi appiglio di ordine diagnostico, ho scritto ( in questa rubrica, e in consessi diversi) più e più volte. E ho scritto da clinico. Cioè da chi, in studio, da decenni maneggia la depressione post partum, la schizofrenia, gli agiti suicidari di madri che, prive di una rete sociale e familiare adeguata, sentono forte il desiderio di chiudere la loro esistenza appena coronato un sogno per il quale sentono di non avere le forze, diventare madri, perché spesso non adeguatamente sostenute. Ma anche madri depresse che, in nome dell’amore per il figlio, lottano a mani nude contro il male oscuro, chiedendo aiuto in questo durissimo percorso. Proprio perché sono un clinico, assisto con dolore alla tendenza assolutoria che si innerva nel contesto sociale ogni qual volta abbiamo a che fare con delitti efferati.
Poiché tengo la clinica come barra di orientamento, posso sostenere che concetti quali “raptus”, “momentanei stati dissociativi”, o sindromi tra le più disparate, sono sovente strumenti per velare l’incapacità del corpo sociale nel farsi una ragione dell’indicibile: in questo caso, una madre che uccide il figlio. Vale in questo caso ciò che valeva per i casi di Marisa Cherrere o di Veronica Panarello.
Da quel che sappiamo, si tratta di un infanticidio pensato, ideato, premeditato, progettato con cura. Portato a termine con lucida spietatezza, sino a costruire una realtà fittizia nella quale ‘uomini incappucciati’ avrebbero rapito la bambina. Bambina uccisa con un coltello da cucina e sotterrata malamente. Le indiscrezioni di stampa lasciano trapelare l’odore dell’odio puro, il sapore di un desiderio di vendetta cristallino e affilato, basato su una pianificazione dettagliata e cinica. Fortunatamente, prima che il vario cianciare mediatico debordasse, uno dei primi commenti è stata l’ottima disamina del professor Carlo Mencacci il quale, attingendo alla clinica (perché così deve essere!) e non alla vulgata, fa un salutare falò di desideri assolutori che vagheggiano in rete. Mencacci utilizza la giusta prospettiva della “sindrome di Medea“, dandole una chiara base clinica, inquadrato l’orrendo gesto in un’ottica di vendetta personale e desiderio di fare del male al coniuge. Un rabbia malgestita, lasciata libera di fluire. Un controllo su di essa saltato per aria.
Tuttavia, in omaggio ad una crescente banalizzazione di termini clinici ormai entrati nella nel dire comunque, usati sovente come fregio per infarcire un lessico che non vuole e non può approfondire perché opera faticosa, ciò si va tramutando in rete in una strisciante “assoluzione” in quanto “sindrome”. “Ha, sai, ho sentito il tal luminare, la suddetta aveva la “sindrome di Medea”, quindi, forse, insomma… qualcosa di malato… che ne dici?”
Formula banale usata non solo dall’uomo comune, e questo passi, ma altrettanto abusata da quell’esercito di individui che non sono clinici, che la clinica non la conoscono ma la utilizzano a piene ganasce per dare voce ai loro sentimenti assolutori nemmeno tato latenti, gonfiare il lessico di infarciture prese un tanto al kilo invece da chi il clinico lo è e lo fa, per stendere insulse articolesse colme di nulla e leggere come l’aria. Essere inquadrato in una ‘sindrome’ non significa de facto cadere nella categoria degli “incapaci di intendere di volere”. E non si cada nel tranello di dare alla rabbia un coté giustificativo. L’odio è una passione profonda, antica come l’uomo. Ma il raziocinio, la libera scelta sono l’elemento regolatore del legame sociale. Il piacere della bambina di stare con la nuova compagna del marito sarebbe, stando alle indiscrezioni, quella miccia che avrebbe innescato l’odio, temendo la suddetta forse di perdere non solo la posizione di compagna, ma anche quella di genitrice. A quel punto, forse, la scelta ultimativa di dare la morte alla bambina, non volendo attraversare il dolore e l’amarezza di un figlio che dimostra di stare meglio altrove.
Quei segnali poteva essere intercettati? Il legame sociale si era reso conto del pericolo imminente, le crisi di rabbia erano all’aria aperta, o circoscritte e per questo ignote ai più? Se la signora avesse potuto parlane con qualcuno, qualcuno di qualificato, avrebbe forse potuto rendersi conto di quello stava commettendo. Possibile. Quando una donna in seduta dice che “non ce la fa più ad accudire il figlio, e vorrebbe non fosse mai nato”, un clinico sa far scattare tutti i dispostivi di sicurezza che conosce e padroneggia, mettendosi in rete e attivandosi in prima persona. Ma, appunto, parliamo di donne che quell’aiuto lo hanno chiesto. Direttamente, o indirettamente.
Concludo con il solito appello che spesso da questo colonne lancio.
E’ necessario tenere una ben chiara line di demarcazione tra chi fonda il proprio parere sulla pratica clinica, e chi invece no. Per rispetto a quella creatura straziata, a tutti i bambini uccisi, è bene lanciare un appello ad associazioni, politici, corporazioni, gruppi di opinione, uomini e donne oggi prodighi di indicazioni cliniche: smettete di lanciare appelli pseudo giustificativi rivolti, per questo caso specifico, a “mancata prevenzione”, “disagio post partum” , “mancato aiuto alla maternità”. Così facendo banalizzate strumenti sacrosanti ed essenziali, propri di uno stato evoluto, diretti alle centina e centina di donne sole, impoverite, trascurate, dimenticate, sfruttare, menate e vilipese, quando non licenziate in tronco per aver osato solo desiderare di diventare madri. Donne che vivono in funzione dei loro figli, e in nome di questo, e un clinico lo sa bene, sono capaci di vincere e domare diagnosi di depressione o di profondo disequilibrio, solo ed esclusivamente in nome dell’amore per la loro creatura.
Ma date al male il suo nome. Chiamatelo per quello che è. L’odio non è una malattia. L’odio è una passione dell’uomo, e come tale, non si può curare.