di Federica Pistono *

Una guerra crudele, spietata, che ha inferto lacerazioni inguaribili alle sue vittime. Un conflitto lontano nel tempo, che dovrebbe, ormai, essere sepolto nella memoria dei protagonisti. Eppure, nascoste sotto una coltre di silenzio, nelle pieghe dell’anima, quelle ferite suppurano ancora e basta un evento banale a riaprire quelle piaghe, mai davvero rimarginate. Questa è l’atmosfera che si respira nel romanzo breve Dietro quei silenzi…, della scrittrice algerina francofona Maïssa Bey (Astarte Edizioni, 2020, trad. B. Sommovigo), un’opera che racconta una storia per anni confinata nel buio della memoria, quella della guerra d’Algeria e di tutte le sue vittime.

Il conflitto, divampato tra il 1954 e il 1962, ha opposto l’esercito francese agli indipendentisti algerini, guidati da Fronte di Liberazione Nazionale, e ha portato alla proclamazione dell’indipendenza dell’Algeria nel 1962.

Fra i tanti romanzi dell’autrice, Dietro quei silenzi… occupa un posto particolare, perché si presenta come una testimonianza diretta, un racconto autobiografico che la scrittrice propone ricorrendo alla narrazione in terza persona, un piccolo artificio che le consente di prendere le distanze dal proprio dramma. Si tratta della storia nascosta, immersa per molti anni nel silenzio, del padre, un insegnante morto sotto tortura durante la guerra d’indipendenza, di cui Maïssa Bey conserva solo ricordi frammentari, racchiusi in una fotografia in bianco e nero risalente all’estate del 1955.

Il racconto, ambientato negli anni Novanta e costruito come una pièce teatrale, si svolge in uno spazio chiuso, quello del vagone di un treno che attraversa la Francia, all’interno del quale viaggiano tre persone: una donna algerina, un medico francese in pensione e una ragazza francese, nipote di un pied-noir. Questi tre personaggi, apparentemente privi di legami tra loro, si rivelano in realtà tessere diverse di un unico, grande mosaico che si ricompone nel corso della narrazione, al centro del quale appaiono, sullo sfondo della sanguinosa guerra d’Algeria, le vere identità dei protagonisti della storia.

I tre sconosciuti, nello scompartimento del treno, non hanno altro intento che quello di trascorrere in silenzio il tempo del viaggio, finché un banale incidente non li induce a intavolare una conversazione.

La donna algerina, dietro alla quale si nasconde la scrittrice, rifugiatasi in Francia per sfuggire alla guerra civile che devasta il suo paese, è ossessionata dal ricordo del padre, ucciso dalle torture dei militari francesi, quarant’anni addietro. Il medico ha svolto il servizio militare in Algeria, nel villaggio e nello stesso anno in cui è morto il padre della donna. La ragazza, Marie, vorrebbe soltanto comprendere quel passato doloroso, di cui nessuno le vuole parlare.

Il colloquio prende una piega inattesa e, improvvisamente, la diga del silenzio, innalzata da ciascuno dei personaggi per nascondere un passato tragico, comincia a mostrare segni di cedimento. Gli argini eretti per sfuggire al dolore, all’assenza, al senso di colpa, si sgretolano e, come in una storia poliziesca, tutti i frammenti del puzzle trovano la giusta collocazione. Man mano che il viaggio procede, avviandosi alla conclusione, i personaggi ricostruiscono la vicenda.

Sono passati decenni dai ricordi rimossi e inaspettatamente riportati alla luce, ma è ancora presente, nell’animo dei protagonisti, lo sconvolgimento profondo e totale, irreparabile e imperdonabile, che la guerra ha prodotto nella vita di tutte le persone colpite. I silenzi che, da anni, sono venuti a occupare gli spazi delle anime devastate dal trauma, pesano ancora come piombo. L’autrice focalizza l’attenzione del lettore sul momento particolare in cui le vittime e i carnefici di una guerra accettano finalmente di posare lo sguardo sulle cicatrici delle ferite inflitte e subite, di spezzare i silenzi, venuti ad annebbiare una perdita troppo dolorosa, una colpa troppo devastante. Solo quando il silenzio si rompe, quando i protagonisti scelgono di liberare da un’oscurità informe le paure e le angosce del passato, il racconto può svilupparsi, la guarigione delle ferite può davvero iniziare.

Un testo splendido nella sua sobrietà e forza evocativa e, soprattutto, nella sua incredibile assenza di odio, cui si contrappone la ricerca della comune umanità delle parti in causa. La scrittura, con le sue regole e le sue strutture, diventa un mezzo per mettere ordine nel caos del mondo, per guadagnare la libertà.

* Dottore di Ricerca in Letteratura araba, traduttrice, arabista, docente, si occupa di narrativa araba contemporanea e di traduzione in italiano di letteratura araba

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