“Negli ultimi vent’anni in Italia si è triplicato l’inaridimento del suolo e si stima che il 27% del territorio nazionale rischia di trasformarsi in deserto”. Così Legambiente spiegava il fenomeno della desertificazione. Ma lo faceva 12 anni fa, nel lontano 2010. Riportando dati confermati anche in questi giorni dall’Ispra (l’Istituto per la protezione e ricerca ambientale), che sottolinea come le più a rischio siano le regioni meridionali, ma anche Veneto, Piemonte ed Emilia Romagna. Anche per la siccità è andata così: Puglia, Sicilia e Sardegna sono state le prime ad accusare il colpo. Allora come oggi, il termometro era l’agricoltura. Ma già nel 2012, dunque due lustri or sono, Coldiretti elaborava la prima mappa della sete regione per regione, descrivendo una situazione tragica. E poi c’è stato l’anno horribilis, il 2017. Con il Friuli-Venezia Giulia che decretava lo stato di sofferenza idrica. E non sarebbe stata certo l’ultima volta. Da più di due secoli, in Italia non aveva mai piovuto così poco. Insomma, i segnali sul campo ci sono stati tutti, ma non sono stati colti. Così, nonostante report e previsioni, l’Italia ha continuato a gestire male l’acqua a disposizione, restando ai primi posti per consumo pro capite, mantenendo una rete idrica colabrodo e investendo poco anche nella depurazione.

Così quest’anno la Giornata mondiale per la lotta alla desertificazione e alla siccità 2022 cade proprio – ironia di una sorte annunciata – mentre il razionamento, dai più avvertito come lontana eventualità, diventa soluzione necessaria. Diventa presente e, se qualcosa non cambia, anche ineluttabile futuro. Per evitarlo non basterà certo far fronte all’emergenza, ma occorrerà pianificare e investire. Lavorando perché il prossimo inverno con meno precipitazioni non rigetti intere aree del Paese nel caos. Perché se i cambiamenti climatici riguardano l’intero pianeta, ogni nazione può o meno peggiorare la sua situazione. L’Italia l’ha certamente fatto.

Disponibilità, consumi e dispersione più di dieci anni fa – Basta guardare i dati. Al 2009 si calcolava una disponibilità di 155 miliardi di metri cubi all’anno per usi civili e produttivi, 2.700 metri cubi pro-capite, ridotti rispettivamente a 110 miliardi di metri cubi e a 2mila metri cubi pro-capite per irregolarità dei flussi e inefficienze. Con un terzo dell’acqua disponibile dispersa lungo le reti degli acquedotti. Per non parlare della rete fognaria e di depurazione: secondo il Blue Book 2009 al 15% dei cittadini mancavano le fognature e a quasi il 30% i depuratori. Mentre il 15% della popolazione (otto milioni di persone) nei mesi estivi era sotto la soglia del fabbisogno idrico minimo di cinquanta litri d’acqua al giorno a persona. Più penalizzate Puglia, Sicilia e Sardegna (con il 40-50% in meno delle precipitazioni rispetto alle regioni più piovose), mentre il Nord utilizzava solo il 50% delle disponibilità idriche. A questo si aggiunga il fattore consumo: in media 237 litri al giorno.

I dati dieci anni dopoLecito chiedersi cosa sia cambiato in circa dieci anni. A marzo scorso è stato presentato il Blue book 2022 con i dati del servizio idrico integrato in Italia della Fondazione Utilitatis, realizzato in collaborazione con Cassa Depositi e Prestiti e Istat e con il supporto di Utilitalia. Come Francia e Germania, anche l’Italia è considerato un Paese a stress idrico medio, ma in Europa resta al primo posto per consumo medio pro capite, con oltre 236 litri per abitante al giorno nei Comuni capoluogo e Città metropolitane (Istat) nel 2020, contro una media europea di circa 125 litri (Euroeau). Ancora nel 2020, poi, più di un terzo dell’acqua immessa nella rete va sprecata. Si parla di quasi un miliardo di metri cubi all’anno e di 2,5 milioni di metri cubi al giorno. E anche se gli investimenti crescono, con un valore pro capite di 49 euro, restano distanti dalla media europea di 100 euro per abitante. Senza considerare che al Sud, dove le perdite sono superiori, si scende a 35 euro per abitante. Anche nel dossier Acque in rete 2021, Legambiente racconta che il gap tra acqua immessa nelle reti di distribuzione e quella effettivamente erogata va da una media del 26% nei capoluoghi del nord, al 34% in quelli del centro Italia, fino a un 46% al Sud. Ma alcuni capoluoghi, come Frosinone, arrivano fino al 78% di perdite nella rete di distribuzione. E una trentina di città sono comunque sopra il 50% di perdite. Ancora indietro sui depuratori: per trenta milioni di italiani gli impianti sono inadeguati e non conformi alle direttive europee. Sono quattro le procedure di infrazione che abbiamo subito per la mancata o inadeguata attuazione alla direttiva 91/271/CEE sul trattamento delle acque reflue urbane. Tre agglomerati su quattro in infrazione si trovano a Sud.

Cosa fare – Da qui la necessità di indirizzare nel migliore dei modi le risorse a disposizione. Ma se il Piano nazionale di ripresa e resilienza destina 900 milioni di euro per la rete idrica nazionale, è anche vero che queste risorse serviranno a realizzare progetti che partiranno non prima del 2026. “La vera sfida è trattenere quegli 800 millimetri di acqua che cadono in media ogni anno in Italia visto che oggi riusciamo a farlo solamente per l’11%” ha detto in questi giorni il presidente dell’Associazione nazionale dei consorzi per la gestione e la tutela del territorio e delle acque irrigue, Francesco Vincenzi, che propone di “realizzare una rete di piccoli laghetti integrati sul territorio per permettere di aumentare la capacità degli invasi. Il Piano laghetti – ha precisato – è una forma di risposta al cambiamento climatico, all’interno dei quali abbiamo progettato di mettere dei pannelli solari galleggianti che producano energia e di farli con rocce e terre dei luoghi per mantenere un alto valore ambientale”. Contestualmente, però, ha ribadito, bisogna provvedere alla manutenzione straordinaria degli invasi esistenti e interrati per circa il 10% della loro capacità, nonché al completamento delle 31 opere idrauliche esistenti e alla realizzazione di bacini di cui si parla da decenni.

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