Lo “scambio” con il via libera al Recovery plan della Polonia, che in aprile aveva impedito l’intesa, non è bastato. Stavolta si è messa di traverso l’Ungheria di Viktor Orban, i cui fondi restano bloccati. Budapest ha posto il veto. Risultato: l’Unione europea ha di nuovo fallito nell’intento di approvare la già depotenziata tassa minima sulle multinazionali. Il ministro dell’Economia francese Bruno Le Maire continua a ostentare ottimismo sulla possibilità di raggiungere un accordo entro fine mese quando termina il semestre di presidenza del suo Paese. Ma, nonostante gli ulteriori compromessi al ribasso proposti, siamo ormai alla terza bocciatura all’Ecofin ed è passato un anno dal G7 che ha trionfalmente licenziato l’intesa su un’aliquota del 15% – pochissimo rispetto a quanto paga qualsiasi lavoratore dipendente – e sulla redistribuzione del “diritto a tassare” una parte di utili tra tutti i Paesi in cui una multinazionale opera.
Il ministro delle Finanze ungherese, Mihaly Varga, ha giustificato il no dicendo che in questa fase, con “la grave guerra in corso in Europa” e il conseguente shock economico, insieme alle strozzature delle catene di approvvigionamento globali, “l’introduzione di un’imposta minima globale provocherebbe un grave danno per l’economia dell’Ue”. Dopo le recenti elezioni ungheresi, ha aggiunto, nel Parlamento nazionale “aumentano le voci critiche contro questo accordo”. Le Maire ha ribadito che secondo le valutazioni di Bruxelles la direttiva porterebbe benefici per l’intera economia del Continente e tutti gli ostacoli tecnici per approvarla all’unanimità sono stati rimossi. Non solo: Budapest si era espressa a favore dell’accordo Ocse anche dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, ha ricordato. Ma in mezzo ci sono appunto state le urne che hanno visto Orban riconfermato a larga maggioranza e rafforzato nelle sue posizioni sovraniste e di aperta sfida all’Unione.
Il veto, ancora una volta, è diventato arma di ricatto per ottenere qualcosa in cambio. E’ evidente che la tassa minima di per sé c’entra poco. Due mesi fa Parigi aveva infatti proposto, per convincere i Paesi restii, un rinvio a fine 2023 dell’entrata in vigore del “primo pilastro” dell’accordo, quello che riguarda la redistribuzione del diritto a tassare. E aveva anche acconsentito a che i Paesi che ospitano non oltre dieci società capogruppo – quelle che saranno chiamate a pagare la differenza tra il 15% e l’aliquota applicata a livello nazionale – potessero aspettare fino al 2025.