Mafie

Dalle Stragi al web: così le mafie si evolvono e allargano i loro investimenti internazionali /1

L’esito definitivo del maxi-processo di Palermo contro Cosa nostra del 1986, nato anche e soprattutto grazie alla forte spinta strategica che Giovanni Falcone aveva impresso alla lotta contro le associazioni mafiose, smentì seccamente le rassicurazioni che Salvatore Riina, all’epoca capo della commissione dell’organizzazione, aveva diffuso a piene mani fra gli affiliati. Infatti, la sentenza della Corte di Cassazione del 30 gennaio del 1992 rese definitive le 360 condanne del processo di primo grado e cassò molte delle assoluzioni, irrogando un totale di 19 ergastoli e più di 2500 anni di reclusione. Questa conclusione inattesa fu un grave smacco per il corleonese Riina, che aveva creduto di poter pilotare la sentenza attraverso gli influenti appoggi politici e giudiziari su cui poteva contare nella Capitale.

Come non era difficile prevedere, il boss si infuriò e decise di vendicarsi contro tutti coloro che, in qualche modo, avevano “permesso” di giungere al passaggio in giudicato della sentenza di condanna. La sua rivalsa fu feroce, come era nel carattere dell’uomo. Il 12 marzo del 1992, quindi un mese e mezzo dopo il giudizio finale della Suprema Corte (sincronia temporale decisamente significativa), fece uccidere il politico andreottiano Salvo Lima e programmò le stragi di Capaci e via D’Amelio. Il 17 settembre dello stesso anno fece assassinare l’imprenditore democristiano Ignazio Salvo. Lo stesso Giulio Andreotti fu processato con l’accusa di essere colluso con Cosa nostra, imputazione da cui venne però assolto nel 1999.

Il 23 maggio 1992 furono uccisi i magistrati Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, nonché i poliziotti della tutela Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Il 19 luglio dello stesso anno, un’autobomba piazzata nel cuore del capoluogo siciliano uccise il magistrato Paolo Borsellino e i poliziotti Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

Le due stragi furono il punto di svolta della guerra contro Cosa nostra. Lungi dal fiaccare la reazione dello Stato italiano, infatti, gli eccidi provocarono in tutto il Paese reazioni che la politica romana non poté ignorare. Inaspettatamente per molti, Riina compreso, lo Stato reagì con una forza mai vista. Entrarono in funzione la Dna (Direzione nazionale antimafia), cioè la procura nazionale, e le Dda (Direzioni distrettuali antimafia), le procure distrettuali, e la caccia ai latitanti di Cosa nostra si fece senza quartiere. In qualche mese furono catturati i boss più importanti della commissione: Giuseppe “Piddu” Madonia nel settembre 1992, lo stesso Salvatore Riina nel gennaio 1993 e Nitto Santapaola nel marzo dello stesso anno. Sfuggì alla cattura il solo Bernardo Provenzano, che, vista la situazione di difficoltà in cui era precipitata l’organizzazione, dalla latitanza cercò di riportare Cosa nostra nella dimensione che, prima dell’avvento al potere di quello che un fortunato libro del 1993 definì “il capo dei capi”, per tradizione le era più confacente: il silenzio.

Gli attacchi diretti agli uomini dello Stato, infatti, terminarono, ma evidentemente c’era del “lavoro” già pianificato da concludere. Si assistette perciò alla continuazione della stagione del sangue, con la commissione di attentati indiscriminati a Roma, Milano e Firenze che provocarono dieci vittime. Questa deriva terroristica avvenne sotto la regia di Provenzano, ormai capo della commissione mafiosa. Furono attacchi gravissimi e costarono la vita a molti innocenti, ma avevano due caratteristiche insolite: non furono presi di mira personaggi delle istituzioni e avvennero nel continente, quindi fuori della Sicilia. Una modalità che per Cosa nostra era inusuale.

Fu proprio in questi mesi che si verificò uno snodo fondamentale nella storia evolutiva delle due principali organizzazioni mafiose italiane, cioè Cosa nostra e ‘ndrangheta. Già da tempo, infatti, per riempire le proprie casse la mafia calabrese si era dedicata a lucrosi e spregiudicati sequestri di persona a scopo di estorsione in tutto il Paese, pratica diventata una vera e propria industria illegale che impiegava centinaia di persone.

Approfittando delle difficoltà che Cosa nostra stava avendo a causa dei colpi inferti dallo Stato dopo le stragi del 1992, la ’ndrangheta si infilò nei traffici transoceanici di cocaina ed eroina sostituendosi ai siciliani, che li avevano controllati fino ad allora. Ma questo non fu l’unico motivo del cambio di rotta mafioso. Una norma del 1992, infatti, bloccò ogni possibilità di pagare il riscatto in caso di sequestro di persona, perciò all’improvviso per la ‘ndrangheta rapire i figli di ricchi industriali settentrionali divenne non solo inutile, ma perfino pericoloso. Il sequestro, perciò, non era più praticabile. I calabresi, allora, pensarono di investire il denaro ricavato dall’industria degli ostaggi, nell’acquisto di quantità sempre più ingenti di stupefacenti dalle organizzazioni colombiane e messicane, utilizzando la pratica aziendale del brokeraggio, sia in ambito nazionale, sia internazionale. Fu questo l’input dell’evoluzione imprenditoriale delle mafie italiane.

Oggi il cosiddetto “pizzo” si pratica solo nei territori originari delle organizzazioni mafiose per rammentare alla popolazione che il gruppo esiste ancora, anche se non sembra più dedito ad atti eclatanti. Per alcune consorterie la tangente dei cento euro mensili del parrucchiere di quartiere non ha significato, se messo a confronto con i mostruosi proventi del traffico di cocaina, delle corruzioni e degli investimenti immobiliari fatti in giro per il mondo.

Le somme incamerate dalle associazioni mafiose grazie al traffico di stupefacenti, oggi si trasformano in investimenti internazionali, fatti in particolare dalle consorterie ‘ndranghetiste attraverso i Locali (cioè l’unità organizzativa minima della mafia calabrese), sparsi – letteralmente – nei cinque continenti. Si acquistano immobili importanti, come case e ville di lusso, palazzi, casinò, alberghi, ristoranti, bar, pub e via dicendo, e si individuano aziende in odore di fallimento in cui l’organizzazione immette una tale liquidità che le consente, di fatto, di impossessarsene. Si corrompono politici, uomini delle istituzioni, magistrati, appartenenti alle forze dell’ordine. Tutto questo inquina profondamente l’humus dell’economia legale in quanto scompare la certezza di poter operare con procedure lineari e legali. L’economia sporcata dalle mafie non è una linea retta, è una linea spezzata in mille punti.

Ed è qui che interviene un’altra delle grandi svolte che confermano la spregiudicata capacità delle mafie di adeguarsi alla società che cambia: irrompono le tecnologie informatiche e il web.

[continua]