L’uccisione di Roberto Calvi è una tappa significativa del calendario criminale della storia italiana. Una data simbolo di come gli intrecci di potere e di denaro siano stati custoditi dentro una cassaforte impenetrabile.

Il 18 giugno 1982, Calvi fu trovato morto sotto il ponte dei Frati Neri a Londra, con le tasche zeppe di sassi e 15mila dollari addosso: chiuse frettolosamente le indagini inglesi che rubricarono il caso come suicidio, di ben altro si trattò. Da Sindona a Gelli a Marcinkus, la storia di Calvi si intreccia con quella dei personaggi-chiave che hanno popolato gli intrighi italiani, la sua persona, anche per la sua tragica fine, è un crocevia vulcanico di fatti e misfatti.

Arriva al Banco Ambrosiano non ancora trent’enne, ambizioso, scala rapidamente il potere, fino a ricoprire ruoli di vertice agli inizi degli anni 70. Nel 1975 diventa presidente dell’istituto della finanza ”bianca”, stretta alleata dello Ior, la ”banca” vaticana allora guidata dall’arcivescovo Paul Marcinkus, il vero banchiere di Dio a cui Calvi riuscì a strappare il titolo. A dire il vero l’originale aveva popolato le banche cattoliche negli anni 50 e si chiamava Giovanni Battista Giuffré, personaggio mellifluo, grasso e calvo che ai suoi tempi godeva di uno straordinario potere presso gli ambienti ecclesiastici: con l’aiuto delle parrocchie, rastrellava il denaro di piccoli risparmiatori, soprattutto in Emilia, in Romagna, nelle Marche, prometteva interessi strabilianti, fra il 70 e il 100%, e sosteneva che essi erano un dono della Divina Provvidenza. Erano altri tempi, con strumenti finanziari semplici ma non innocui.

Poi al cospetto di Pietro arrivò il monsignore di origine lituane Paul Marcinkus, nato in un sobborgo di Chicago che si chiama Cicero, cioè la sede delle operazioni di Al Capone all’epoca del proibizionismo. Arrivò a Roma negli anni Sessanta, alto quasi due metri e corporatura atletica, Marcinkus era scaltro e spregiudicato, tanto da conquistare la fiducia di Paolo VI prima e poi di Giovanni Paolo II che gli chiese di finanziare il sindacato polacco Solidarnosc: Markinkus non vedeva l’ora di farlo, e si rivolse a Calvi, chiedendogli di mungere la vacca.

Roberto Calvi, potente e scontroso presidente del più potente istituto bancario italiano, finì sommerso in una rete di tangenti spaventose: creò un sistema di istituti fittizio, le famigerate panamensi, attraverso le quali movimentava denaro a destra e manca, e finendo per essere tra i banchieri di Dio l’unico che cadde in disgrazia.

Lo scandalo scoppiò quando Calvi venne trovato impiccato a un’arcata del ponte di Blackfriars. Intervenne nei giorni seguenti il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta annunciando al Parlamento che il Banco Ambrosiano era esposto per 1400 milioni di dollari e che l’Istituto delle opere di religione era, in alcune operazioni gestite dal Banco, “socio di fatto”. La magistratura italiana non poté perseguire la banca vaticana, ma lo Ior perdette 240 milioni di dollari. Possibile che le nostre autorità finanziarie non avessero potuto fare niente prima? Andò così, come era già andata con Sindona.

A segnare la sorte di Calvi fu anche la uscita di scena di Gelli nell’81, dopo la scoperta delle liste della P2 alla quale lui è ovviamente iscritto. Il banchiere, senza Gelli, si sente totalmente perso, racconta Francesco Pazienza, allora suo collaboratore, nel suo libro (Ed. Chiarelettere). Il 21 maggio dell’anno seguente finisce in manette. I suoi tentativi di trovare una sponda in Vaticano e allo Ior finiscono nel vuoto. Messo in libertà provvisoria in attesa del processo, cerca aiuti come fosse un leone in gabbia, è disperato, e Pazienza gli presenta il finanziere Flavio Carboni: proprio l’uomo che lo accompagnò al confine con la Svizzera, da cui poi partì per la destinazione finale, Londra. È il 15 giugno 1982. Tre giorni dopo viene trovato impiccato sotto il Blackfriars Bridge.

La lunga storia giudiziaria non ha indicato i colpevoli ma ha stabilito che di assassinio si trattò. Nel novembre del 2016 finì definitivamente in archivio l’inchiesta della procura di Roma aperta nel 2008 dal pm Luca Tescaroli, che è sempre stato convinto delle responsabilità di Flavio Carboni, con un fascicolo stralcio dopo le precedenti assoluzioni di Pippo Calò, cassiere di Cosa nostra, dello stesso Carboni, e di Ernesto Diotallevi, Manuela Kleinszig e Silvano Vittor.

Nel registro degli indagati di Tescaroli finirono Licio Gelli (ritenuto mandante e organizzatore del delitto), Hans Albert Kunz, cittadino svizzero che avrebbe condotto Calvi a Londra, il camorrista Vincenzo Casillo, Francesco Pazienza, Maurizio Mazzotta e Flavio Carboni. Il gip Simonetta D’Alessandro decise che non c’erano abbastanza elementi per andare avanti, ma volle sottolineare l’importanza del lavoro Tescaroli i cui sforzi portarono a configurare l’omicidio del banchiere, sotto forma di suicidio simulato. Nessuna prova – scrive il gip nel decreto di archiviazione – “ma la consegna comunque di un’ipotesi storica dell’assassinio difficilmente sormontabile: una parte del Vaticano, ma non tutto il Vaticano; una parte di Cosa Nostra, ma non tutta Cosa Nostra; una parte della massoneria, ma non tutta la massoneria, e in una parola, la contiguità tra i soli livelli apicali in una fase strategica di politica estera, che ha bruciato capitali, che secondo i pentiti, erano di provenienza mafiosa. Di più non è stato possibile fare”.

Fino ad oggi questo. Poi entra in scena il processo sui mandanti della strage di Bologna che prospetta uno scenario importante: quei flussi di denaro per alcuni milioni di dollari partiti sostanzialmente dai Licio Gelli e Umberto Ortolani e alla fine destinati, indirettamente, al gruppo dei Nar e a coloro che sono indicati come organizzatori, Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi, partirono dal banco ambrosiano di Calvi. Che la sua uccisione non sia da ricollegare alla strage?

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