A quasi due mesi dal sequestro di quattro milioni di euro per frode fiscale disposto dalla Procura di Milano nei confronti del gruppo dei salumi Fratelli Beretta, il tema della gestione della manodopera in azienda rimane caldo. Anche perché, dopo il coinvolgimento della cooperativa The Workers nell’inchiesta, la società ha proceduto a un cambio appalto affidando la gestione di 58 lavoratori (in quattro hanno rifiutato) a Mpm spa. All’accordo hanno dato il via libera Cgil e Uil, mentre gli aderenti a Slai Cobas, il maggiore sindacato presente in Beretta, a fine maggio hanno scioperato per protestare contro quello che ritengono “un colpo di spugna”. “Con il cambio appalto l’azienda tenta di rifarsi un’immagine a fini commerciali, continuando però con lo stesso sistema di lavoro ultra precario”, sostiene Sergio Caprini, responsabile sindacale Slai Cobas. Un sistema che divide i lavoratori del reparto in tre categorie con tutele e retribuzioni diverse, sebbene le mansioni svolte siano praticamente le stesse.
Ci sono infatti i dipendenti diretti, i lavoratori somministrati e quelli in appalto. Mentre ai primi due gruppi si applica il contratto collettivo alimentari, che prevede una paga base di circa 1400 euro, al terzo quello multiservizi, che dà diritto a uno stipendio di mille euro. Non solo. I lavoratori somministrati, assunti attraverso le agenzie interinali, hanno contratti anche della durata di sole due settimane e retribuzioni inferiori ai dipendenti diretti. Secondo Slai Cobas dopo l’accordo di cambio appalto in vigore dal primo giugno “le operaie sono state costrette a firmare un contratto di assunzione senza sapere quante linee di produzione sono a loro disposizione. Il loro contratto di lavoro prima era nello stabilimento di Trezzo e ora, invece, non si sa: i lavoratori potrebbero venire spostati in altri stabilimenti”. I dettagli dell’intesa, infatti, non sono stati comunicati ai Cobas. Il timore del sindacato è che si ripeta quanto avvenuto nei mesi scorsi, quando, a periodi alterni, alcuni lavoratori appaltati sono stati costretti al riposo perché in fabbrica non c’era posto. Le linee che dovevano essergli riservate sulla base del precedente contratto di appalto, infatti, venivano usate a discrezione di Beretta che vi metteva i lavoratori interinali dell’agenzia.
“Abbiamo fatto un esposto anche alla Guardia di finanza e continueremo sia con iniziative sindacali sia con quelle legali” aggiunge Caprini. “Vogliamo sapere quante linee sono interessate dal nuovo appalto. Senza questa informazione il cambio appalto si trasforma in una partita di giro, per passare le operaie dalla vecchia società inquisita alla nuova senza vincoli e con le mani libere di trasferire le operaie ad altre realtà produttive”. Insomma, quello che il sindacato contesta è la mancanza della garanzia del posto di lavoro nello stabilimento oggetto dell’appalto. Una circostanza che, inoltre, rischia di fare perdere di validità all’accordo aziendale sottoscritto l’anno scorso, in base al quale sono state riconosciute ai lavoratori garanzie ulteriori rispetto al contratto multiservizi e 150 euro in più al mese. C’è poi il tema delle condizioni di lavoro: nel reparto oggetto dell’appalto lavorano circa 100 operai con tre contratti diversi. Tutti svolgono le stesse mansioni ma con paghe differenti, fino al minimo di mille euro per i lavoratori appaltati. “Questa è una fabbrica molto usurante” prosegue Caprini, “le patologie professionali, come cervicali, tendinopatie della cuffia dei rotatori, tunnel carpale sono estremamente diffuse. In azienda, poi, sono quasi tutte donne e devono fare lavori pesanti spesso al freddo, come nelle camere bianche dove vengono affettati i prosciutti. Si tratta di un lavoro precario, duro, veloce e usurante, per un salario sotto il livello di sussistenza”.
Il sistema delle coop esterne al centro dell’inchiesta – Insomma, sono questi gli elementi che hanno spinto, negli scorsi mesi, una trentina di lavoratori delle cooperative appaltatrici a ricostruire con le loro testimonianze le modalità di gestione della manodopera all’interno degli stabilimenti del gruppo alimentare da 750 milioni di euro di fatturato. Ed è stato infatti proprio il sistema con il quale venivano impiegati gli operai il centro dell’inchiesta della procura di Milano che ha portato al sequestro di 4 milioni di euro nei confronti di Beretta e di 9 milioni di euro (solo sulla carta dal momento che le società sono state svuotate) a carico di consorzi e cooperative che fornivano la manodopera, tutte riconducibili a Fabrizio Cairoli. In particolare, l’accusa è quella di aver usato cooperative esterne come “serbatoi di dipendenti” da spostare a seconda delle necessità della produzione. Cooperative che, però, non godevano di autonomia: la gestione dei lavoratori era, nei fatti, nelle mani di Beretta, in violazione delle norme sull’appalto. Il sistema avrebbe garantito all’azienda risparmi, ritenuti irregolari, sul costo del lavoro, anche grazie all’evasione fiscale realizzata dalle cooperative che non pagavano contributi e altre imposte (tra cui l’iva).
Dalle dichiarazioni dei lavoratori, scrive il giudice delle indagini preliminari, “emerge con chiarezza che gli stessi, pur avendo cambiato formalmente più volte datore di lavoro a seguito di simulati cambi di appalto presso il committente Salumificio Fratelli Beretta, hanno di fatto continuato a prestare nel tempo la loro opera senza soluzione di continuità, proseguendo nello svolgere sempre le stesse mansioni, negli stessi luoghi di lavoro, unitamente agli stessi colleghi e facendo riferimento agli stessi responsabili di cooperativa”. In pratica, “l’effettiva gestione dei lavoratori in carico alle cooperative affidatarie dell’appalto, di esclusiva competenza dell’appaltatore, era in realtà disposta e di competenza della società committente Salumificio Fratelli Beretta”. Quando poi qualcuno si lamentava delle condizioni lavorative, prosegue il gip, “i preposti comunicavano in maniera evasiva che la vecchia cooperativa era fallita o aveva perso l’appalto”. E i lavoratori “venivano invitati a firmare la lettera di licenziamento dalla vecchia cooperativa e contestualmente quella di assunzione nella nuova impresa”.
La replica dell’azienda – Dall’azienda fanno sapere che “l’azienda, per alcune sue attività meramente accessorie, si avvale di un numero residuale di risorse attraverso il ricorso ad appalti di servizio affidati ad aziende terze (nel caso specifico non cooperative); la prestazione di lavoro tramite appalto di servizio è riconosciuta dalla legge e pienamente coerente con lo statuto dei lavoratori; gli stessi lavoratori la cui prestazione di lavoro è riconducibile all’interno di un contratto di appalto di servizio beneficiano senza distinguo di tutte le tutele relative ai contratti di lavoro collettivo previsti dalla legge. In ogni caso a seguito di quanto emerso, in accordo con le rappresentanze sindacali, l’azienda ha interrotto i rapporti con la ditta appaltatrice e, con l’ausilio di un advisor indipendente, ha intrapreso un processo volto alla sostituzione di tutte le società appaltatrici. L’iter verrà completato entro 1° luglio 2022”.