Ci credevamo campioni d’Europa, ci siamo scoperti zimbelli del mondo del calcio. Dopo Russia 2018, anche Qatar 2022: fuori dai Mondiali per la seconda volta di fila. Eppure le rappresentative fino all'Under 19 macinano risultati. Poi il nulla: gli under 23 con all’attivo almeno 1.500 minuti nell’ultima stagione sono appena 27, la Francia ne ha 81 e fanno meglio anche Olanda, Portogallo e Spagna
Non è un calcio per giovani. Basta parafrasare uno dei più noti successi cinematografici per centrare il problema del pallone italiano. Ci credevamo campioni d’Europa, ci siamo scoperti zimbelli del mondo del calcio. Dopo Russia 2018, anche Qatar 2022: fuori dai Mondiali per la seconda volta di fila. La premiata coppia Mancini-Gravina non ha fatto una piega: entrambi sono ancora lì al loro posto, attaccati alla poltrona, più supponenti di prima. Ma al netto di qualche errore commesso, da un certo punto di vista hanno persino ragione: non è (soltanto) colpa loro se il nostro calcio è vecchio e senza talento. Abbiamo vinto gli Europei per una coincidenza astrale irripetibile, ma sotto il trionfo non c’era nulla: una squadra mediocre, pochi ricambi, nessun campione in arrivo. Perché da anni non produciamo talenti.
I GIOVANI CI SONO, SI PERDONO QUANDO CRESCONO – Per dare un segno di vita la Figc ha imbastito uno stage di 53 giovani calciatori. Mancini prova a fare ciò che non fanno i club di Serie A: selezionare i ragazzi e farli diventare giocatori veri. Perché i giovani da qualche parte ci sono. Lo dimostrano i risultati delle nazionali giovanili: l’Under 17 ha fatto due finali consecutive agli Europei 2018 e 2019, l’Under 19 è arrivata seconda nel 2016 e nel 2018; quest’anno tutte le rappresentative si sono qualificate alle fasi finali delle rispettive competizioni. Significa che a quei livelli gli azzurrini primeggiano ancora sui pari età. I problemi nascono dopo, come si vede dall’Under 21, serbatoio della nazionale maggiore, un tempo punta di diamante del movimento: non qualificata alle Olimpiadi per tre edizioni di fila, l’ultima finale nel 2013, l’ultima vittoria addirittura nel 2004. I giovani cominciano a perdersi quando crescono, e poi spariscono. Perché non giocano. Così, in questa finestra estiva, Mancini si è ritrovato costretto a catapultare in campo una schiera di ragazzini con zero esperienza internazionale (e a volte nemmeno nazionale). Indicazioni a tratti anche incoraggianti, ma c’è poco da stupirsi della figuraccia epocale rimediata contro la Germania.
I NUMERI DELLA CRISI: ITALIA MAGLIA NERA D’EUROPA – C’è una statistica che spiega tanto della nostra crisi: l’Italia è il Paese con meno calciatori giovani che giocano di tutta Europa. Se prendiamo in considerazione gli under 23 con all’attivo almeno 1.500 minuti nell’ultima stagione (cioè circa 15 presenze, un titolare medio), scopriamo che l’Italia ne ha appena 27. La Francia, non a caso al top del calcio mondiale con una nazionale stellare, addirittura 81. Ma anche Olanda (44), Portogallo (41) e Spagna (36), tre movimenti in salute, ci sono davanti. Qualche altro numero. La Serie B ha elaborato un report per sottolineare come i giovani italiani giochino ben il 20% del minutaggio complessivo del torneo, ma il dato si potrebbe leggere anche al contrario, ciò che giocano “solo” il 20% del totale (e poi si tratta pur sempre della B, la A non consideriamola neppure). Stesso discorso per la Primavera: un terzo di stranieri è una percentuale piccola o gigantesca, specie se concentrata in ruoli chiave come gli attaccanti?
MENTALITÀ CAVERNICOLA E POLITICHE SBAGLIATE – Le ragioni di questa crisi sono tante, e non è il caso di tirare in ballo la questione demografica o altri macro-fenomeni sociali. Le colpe sono interne al movimento: “Abbiamo appaltato all’estero la filiera del talento, perché costa più organizzare un settore giovanile che andarsi a prendere un giovane già formato da qualcun altro. Però questa è una scorciatoia e i nodi poi vengono al pettine in nazionale”, spiega Umberto Calcagno, numero uno dell’Associazione calciatori e vicepresidente federale. C’è innanzitutto un problema di visione: l’ossessione per il risultato, l’assillo del tutto e subito, a qualsiasi livello, dalla lotta per lo scudetto alla salvezza in Serie C, che non permette di scommettere sui giovani e lasciarli sbagliare. Quella mentalità preistorica, alla Allegri insomma, per cui “sotto i 25-26 anni non si è pronti, non bisogna inventarsi nulla”. Così a parte i vari Barella, Chiesa, Tonali, i campionissimi che non passano inosservati, gli altri marciscono in panchina, passano anni di prestito in prestito. Però poi ci sono anche le politiche sbagliate che alimentano il “mostro”. Prendiamo uno dei pochi provvedimenti varati dal governo in favore del pallone: il famoso “Decreto crescita”, che permette di pagare le tasse solo sul 70% dello stipendio di un calciatore che arriva dall’estero. Fu approvato nel 2019 nel consenso generale e ora dopo il disastro della nazionale è diventato la causa di tutti mali, con una feroce battaglia per abolirlo. La Serie A, a cui lo sgravio fa comodo, sottolinea che durante il periodo di applicazione gli stranieri sono aumentati solo del 3%, ma certo facilitare l’ingaggio di giocatori esteri di medio livello non è la maniera migliore per aiutare il movimento. Questa misura avrebbe avuto senso solo per attrarre i grandissimi campioni, quelli che guadagnano dai 5 milioni di euro in su, e non con la soglia del milione che alla fine è stata fissata.
FLOP SECONDE SQUADRE E LISTE FARSA – Se il governo fa danni, non va meglio sul fronte interno. Tanto invocata per quel pizzico di esterofilia che ci contraddistingue sempre, la riforma delle seconde squadre sul modello inglese o spagnolo è stata un autentico flop: doveva servire per dare la possibilità ai giovani di cimentarsi subito tra i professionisti, ma tra tasse d’iscrizione (troppo alte) e spese operative, una “squadra B” costa 4-5 milioni a stagione che le società non vogliono investire. Così in 5 anni se l’è fatta solo la Juventus, che tra l’altro l’ha trasformata in un “plusvalentificio” (come confermato tristemente dalle ultime inchieste). Quasi peggio che non averla. “La Federazione purtroppo non ha gli strumenti per costringere le società a puntare sui giovani italiani”, prosegue Calcagno. Vero, ma solo in parte. Il provvedimento che tutti i tifosi invocano ad ogni disfatta della nazionale, cioè imporre un numero minimo di italiani da schierare in campo, semplicemente non si può fare: è contrario alle norme europee sulla libera circolazione. Infatti nelle liste si parla genericamente di “giocatori cresciuti nel vivaio”, che possono essere dunque anche stranieri. Dei requisiti minimi per comporre le rose in realtà esistono, fissati sia da Figc che dalla Uefa, ma così diventano una farsa: oggi vige la regola del “4+4”, quattro cresciuti nelle giovanili di club italiani, quattro nelle giovanili del club. Il primo è troppo generico e ci rientra praticamente qualsiasi calciatore, italiano e non, che vive in Italia da anni, il secondo è facilmente aggirabile: basta piazzare i due portieri di riserva e un paio di panchinari (che a volte vengono acquistati apposta per ottemperare ai requisiti) e il gioco è fatto. Diverso sarebbe se il numero minimo di giocatori provenienti dal vivaio fosse aumentato, ad esempio da 8 a 12: è una proposta su cui si ragiona in ambito federale, su proposta dell’AssoCalciatori, per ora resta solo un’idea.
GLI INCENTIVI CHE NON BASTANO – Un’altra soluzione è quella dei premi a minutaggio: in Serie B e C, per ogni minuto che giocano ragazzi italiani, i club prendono soldi. Basti dire che nell’ultimo anno fra i cadetti il Cosenza ha raggranellato oltre 2 milioni di euro, ed è pure riuscito a salvarsi allo spareggio; in terza serie si può arrivare a guadagnare 300-400mila euro, cioè il 10-15% del budget totale. Cifre importanti, infatti il sistema funziona: tante squadre, invero soprattutto di seconda fascia, sono incentivate a schierare i giovani italiani. Il meccanismo andrebbe ampliato, dotato di maggiori risorse (oggi conta solo su una parte del 10% di mutualità della Legge Melandri) e, soprattutto, portato in Serie A: se invece di distribuire soldi a pioggia una quota dei proventi da diritti tv venisse vincolata agli investimenti sui vivai e all’impiego dei propri giovani, magari vedremmo più ragazzi italiani in campo. Ma per farlo bisognerebbe mettere in discussione il sistema di distribuzione dei ricavi, su cui i patron non hanno mai voluto sentire ragioni. Non pensano al movimento ma, giustamente, alle proprie tasche, sono degli imprenditori e neppure troppo illuminati. Inutile aspettarsi che la rinascita del calcio italiano parta da loro: l’unica via perché puntino sui giovani è costringerli, o incentivarli a farlo. Bastone e carota. Per un motivo o per l’altro, per inerzia o complicità, chi governa il calcio italiano non è mai riuscito a farlo. Adesso che ci ritroviamo per 12 anni fuori dai Mondiali, straparliamo di giovani e riforme. È già troppo tardi.
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