Politica

Roma può far male. Nevvero Di Maio?

Ai tempi della mia giovinezza, bazzicando il palazzone nero di Confindustria all’Eur, mi imbattevo sistematicamente nella tipologia umana del medio imprenditore con un bel po’ di grana appresso; arrivato nella capitale dal Basso Piemonte o dalla Padania profonda, pronto a essere intercettato da damazze di princisbecco, che si spacciavano per gentildonne a 24 carati, e sedicenti brasseurs d’affaires, venditori di fumo gabellato per business mirabolanti. Di fatto, un’associazione a delinquere dedicata all’alleggerimento professionale e sistematico del solito malcapitato naif, convinto di aver avuto accesso a quello che riteneva essere il gran mondo.

Rapidamente destinato a ritornare all’ovile spennato a dovere.

A Roma, a fronte di questi comitati d’accoglienza per ingenui padroncini, operavano e operano (altrettanto interessati) intermediari strategici accreditati per visite guidate nei meandri del potere capitolino. Sempre esibendo le stesse strutture acchiappacitrulli: terrazze con vista su piazza di Spagna o ville sulla Cassia, più un parterre di presunti potenti a cui richiedere favori (in questa genia di millantatori, il più spregiudicato fra tutti – il venerabile Licio Gelli – utilizzava il telefono e le formidabili doti da imitatore di Alighiero Noschese, per dare l’impressione al suo interlocutore di essere stato messo in contatto audio con il personaggio Top/Vip a cui puntava). Ma mentre i tour degli industrialotti si riducevano in prevalenza a rapidi “metti e leva”, accudire e addomesticare rappresentanti del popolo provenienti da natii borghi selvaggi continua a essere un impegno di lunga durata. Una missione che viene da lontano: ricreare in ambiente capitolino quegli ozi di Capua che in altri tempi ammorbidirono il feroce guerriero Annibale, rendendolo omologato e inoffensivo come un Luigi Di Maio qualunque. Appunto.

Ve lo ricordate il politicante-spugna che assorbiva maldestramente tutti gli umori protestatari e sovversivi messi in circolo dal ponentino romano? Quello che pretendeva l’impeachment per il presidente Mattarella, inseguiva i gilet gialli per blandirli, scimmiottava il razzismo leghista definendo “taxi de mare” i barconi su cui i migranti annegano. Lo stesso che ora, dopo una cura a base di pensiero pensabile e adeguate frequentazioni del generone politico, inguainato nel completino fighetto può impancarsi rivendicando “con orgoglio di essere fortemente atlantista ed europeista”. Un altro americano de Roma alla Sordi-Nando Moriconi. Come già a suo tempo avevo avuto modo di percepire, intercorrendo un indiretto rapporto professionale.

Infatti, nella precedente tornata amministrativa in Regione Liguria mi era stato richiesto dal gruppo Cinquestelle di studiare l’ipotesi di legge istitutiva del reddito di cittadinanza su base regionale. Il progetto che presentai prendeva in considerazione le povertà assolute del territorio (130mila circa, secondo l’Istat) cui erogare 6mila euro annui di pura sopravvivenza. In totale un budget di 800 milioni di euro. Fui stupito quando, in conferenza stampa di presentazione del progetto, la capogruppo 5S spiegò che il provvedimento sarebbe entrato in funzione per 2/3 anni, perché dopo si sarebbe auto-alimentato. Cascato dal cielo le chiesi chi le aveva fatto dire quella scemenza. La risposta fu che Luigi Di Maio, tutor nazionale dell’operazione, sosteneva che la messa in circolo di un sussidio di tale entità avrebbe avviato la spirale virtuosa dei consumi a vantaggio delle aziende, che avrebbero investito e creato nuovi posti di lavoro.

Vano insistere che per i poveri assoluti (anziani non indipendenti, disabili, mutilati ecc.) non è ipotizzabile l’occupabilità. Per cui il reddito di cittadinanza andava considerato alla stregua di una pensione. Tutto inutile: la mia parola nulla poteva davanti alla determinazione di Giggino nell’equivocare tale misura trattandola alla stregua di un investimento anticiclico da New Deal rooseveltiano. Come qualche professorino di ateneo mainstream – dalla Luiss confindustriale alla Link Campus, presieduta da quel Vincenzo Scotti di antica militanza democristiana (lo chiamavano Tarzan per come passava da una corrente all’altra come fossero liane) – gli aveva ficcato in testa, confondendogli ulteriormente le idee.

Ossia, agendo su questa improvvisa predisposizione all’arrampicata sociale, facendo propri i luoghi comuni che impregnano l’ambiente al punto che tali codici aprono l’accesso al garden club di quelli che contano. Staremo a vedere se – una volta destabilizzata l’operazione Conte di rilancio dei Cinquestelle – Di Maio manterrà ancora un qualche interesse per siffatto club di quelli che piacciono a lorsignori. Se sarà ancora riciclabile un pallido clone del doroteismo di scuola partenopea tipo famiglia Gava, magari con un ulteriore influsso modello Cirino Pomicino.