L'autrice di "La lotte di classe del XXI secolo" (edizioni Ponte delle Grazie) riflette su come la pandemia prima e la guerra poi stiano influenzando le dinamiche della globalizzazione che abbiamo visto sinora. Un processo che, spiega Undiemi, stava rallentando già prima che la Russia invadesse l'Ucraina e che evidenzia con sempre maggior forza i contrasti con i principi base delle nostre democrazie
Per molti illustri osservatori l’invasione russa dell’Ucraina segna la fine della globalizzazione così come l’abbiamo conosciuta. Eppure un rallentamento di questo processo, più graduale, era in atto già prima del conflitto e anche prima della pandemia. Nel 2019 il valore degli scambi globali si era ridotto al 57% del Pil mondiale rispetto al 60% degli anni precedenti. Cosa ne pensa?
Sono ed erano tanti i segnali di un’inversione di rotta del processo di globalizzazione e non sono iniziati con l’invasione dell’Ucraina. La globalizzazione è un processo che è stato lasciato quasi totalmente all’arbitrio del mercato e del capitale e che ha avuto come effetto anche una crescita esponenziale dei fatturati delle multinazionali, ormai talmente grandi da sfuggirei al potere politico. I rapporti di forza si sono così rovesciati: sono sempre più frequenti i casi in cui i governi mostrano subalternità alle logiche di mercato e alle esigenze delle multinazionali. È un fenomeno che si può osservare in tutti i campi: dai servizi alla logistica. Amazon viene ad esempio corteggiata affinché apra i suoi stabilimenti in taluni stati anziché in altri, perché in tal modo cresce l’occupazione, ma è chiaro che la multinazionale insedia gli stabilimenti dove gli conviene, ossia dove il lavoro costa meno e le agevolazioni fiscali a carico dei contribuenti sono maggiori. Questo scatena una competizione al ribasso tra stati per incrementare questo tipo di occupazione, e la si fa ponendo le basi legislative per la riduzione dei salari.
Nei due anni della pandemia in molti hanno sottolineato l’eccessivo potere delle case farmaceutiche. I vaccini sono stati sviluppati anche grazie a finanziamenti pubblici eppure i profitti dei brevetti sono rimasti totalmente privatizzate e le aziende hanno imposto i loro prezzi, spesso di molte volte superiori ai costi di produzione…
La salute dei cittadini del mondo è stata affidata a una multinazionale che produce in fretta e furia un farmaco e politici che spingono all’inoculazione di massa. L’UE aveva intenzione di tenere segreti i contratti commerciali stipulati con i paesi acquirenti, anzi venduti direttamente a Bruxelles per poi essere canalizzati nei singoli stati, con i benestare di enti vari preposti a una supervisione a tratti davvero poco chiara. Grazie a questa architettura i gruppi farmaceutici hanno incassato profitti stratosferici. Possiamo dire peraltro che la crisi pandemica ha coinciso con l’apice dell’espansione del capitalismo globalizzato di stampo occidentale. E all’allargamento delle multinazionali sui mercati si accompagna la crisi della democrazia dei paesi europei, favoriti dall’incremento delle diseguaglianze, della povertà, della disoccupazione e del precariato, in proporzioni di cui ancora nessuno credo abbia piena cognizione
L’economista di Harvard Dani Rodrik, critico su alcuni aspetti della globalizzazione da tempi non sospetti, parlava del resto di “trilemma”. Tra democrazia, stato nazione e integrazione economica internazionale è possibile scegliere solo due cose. Impossibile averle tutte e tre assieme.
La governance europea è stata rimodellata sulla falsa riga di quella che il Fondo monetario internazionale, organismo espressione degli Stati Uniti, ha imposto nel resto del mondo. Funziona così, uno stato si trova in difficoltà finanziaria – magari proprio perché è il sistema finanziario mondiale stesso a esser mal messo . Le agenzie di rating (le tre più importanti Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch sono statunitensi), di concerto con le istituzioni sovranazionali fanno pressioni, e queste ultime a un certo punto propongono una trattativa. Si offrono di aiutare finanziariamente il paese in difficoltà, ma questo deve in cambio cedere la propria sovranità, nel senso che per gli anni e i governi a venire sono gli enti internazionali a decidere si governa il territorio, predisponendo riforme dettagliate in tutti i principali ambiti della vita sociale. Poco importa che poi il popolo esprima a maggioranza una preferenza per un programma elettorale, è tutto finto, perché tanto il Parlamento dovrà eseguire sotto dettatura le riforme calate dall’alto. Fine della democrazia, fine della sovranità di uno Stato. La Grecia ne è stato un esempio lampante. Gli accordi sono strutturati di modo tale che la rata successiva di aiuto finanziario sia erogata solo se l’ente creditore, l’Unione europea o il Mes/Troika con i suoi “fondi salva stati”, accertano che il parlamento e il governo abbiano attuato effettivamente le riforme imposte.
Riforme che spesso vanno a gravare sulle fasce più deboli della popolazione mentre chi dispone di grandi capitali può facilmente spostarli altrove e metterli al riparo da qualsiasi intervento….
Le riforme sono infatti per lo più basate sulla spinta ai massimi livelli della competitività e della concorrenza, che passa anche attraverso la riduzione dello stato sociale e del potere di contrattazione dei lavoratori. In pratica, la globalizzazione di stampo occidentale è ormai diventata una lotta di classe al contrario, che vede la politica fedele alleata del grande capitale.
Che impatto ha la guerra su questo quadro che Lei tratteggia?
Faccio una considerazione molto semplice. Non possiamo esportare la democrazia se nel frattempo distruggiamo la nostra. Questa profonda contraddizione dell’Occidente credo sia un fattore di estrema debolezza per lo stesso sistema di potere, perché cosciente della realtà dei fatti, buona parte dell’opinione pubblica ormai non si fida più. Questo non dipende certo dalla guerra in Ucraina, che in tal senso rappresenta solo un fattore di accelerazione delle profonde contraddizioni che ormai lacerano l’Occidente. Sino a ora la rottura tra democrazia e globalizzazione è stata celata dietro il mito dei tecnici di cui si ebbe il primo assaggio nel Cile del dittatore Augusto Pinochet. C’è chi pensa che la giustificazione delle scelte politiche in caso di crisi attraverso la creazione delle cosiddette “cabine di regia” sia un fatto nuovo, legato alla crisi pandemica ma non è assolutamente così. Mi chiedo come sia possibile che le democrazie occidentali abbiano fatto proprio queste logiche privando di significato il diritto al voto dei cittadini, tanto le decisioni sono quelle dei tecnici, che poi alla fine sono scelte politiche mal celate.
Come possono gli italiani dimenticare che l’instaurazione del governo Monti sia stata fatta proprio sul mito del “tecnico”? Salvo poi rendersi conto che non solo le scelte erano squisitamente politiche ma che andavano a favore di pochi e contro le masse: basta ricordare la riforma delle pensioni o l’attacco ai diritti dei lavoratori, o ancora la riduzione dello Stato sociale in nome del contenimento del debito pubblico, che era “cattivo” solo se destinato a soddisfare le esigenze dei cittadini.
Come se ne esce?
Tornare indietro oggi è davvero complicato, perché la delega al capitale privato su tutti i principali settori strategici è tale che ormai il potere pubblico brancola nel buio. L’espansione delle multinazionali è incontrollata, e occorrerebbero inchieste mirate per fare luce su qual è oggi lo stato della globalizzazione, e del rapporto reale che c’è tra stati e capitale privato. La quantità di fusioni e acquisizioni a parte di colossi come Amazon, Facebook e Microsoft è tale che la Federal Trade Commission – l’agenzia governativa statunitense che si occupa della tutela dei consumatori e dell’eliminazione e della prevenzione di pratiche anticoncorrenziali – ha ordinato di fornire informazioni su acquisizioni precedenti, non comunicate alle agenzie antitrust in merito alle transazioni concluse tra il 1° gennaio 2010 e il 31 dicembre 2019. La verità è che si sa molto poco del reale stato delle cose, le multinazionali non hanno interessi nazionali, ma sfruttano le opportunità offerte dai vari territori per trarre il massimo profitto nella scacchiera mondiale. La guerra in Ucraina, si spera il prima possibile, finirà, ma la crisi della globalizzazione non sparirà, la guerra non sarà più tra stati ma tra capitale e stati. Quindi le cose sono due, o si coglie questa occasione per aprire un serio e strutturato dibattito, oppure si è destinati a subire gli eventi.