In base all'intesa trovata da Socialisti & Democratici, Ppe e Renew e accettata anche dai Verdi i settori responsabili di gran parte delle emissioni di gas serra, dalle acciaierie ai cementifici, continuerebbero a ricevere quote senza pagare fino al 2032, anno di entrata in vigore della carbon tax alla frontiera. La Commissione Ambiente aveva approvato impegni più stringenti. La ong Carbon Market Watch: "Sussidiare l'inquinamento in questo modo toglie l'incentivo economico per l'industria pesante ad adottare azioni climatiche e migliorare la propria efficienza. E toglie agli Stati il gettito delle aste delle quote"
Dopo la spaccatura andata in scena all’inizio di giugno, la plenaria del Parlamento europeo ha votato una proposta di compromesso sulla riforma del sistema Ue per lo scambio delle quote di emissione di Co2 (Ets) e la nuova carbon tax alla frontiera. Il via libera ha consentito di sbloccare anche il Fondo Sociale per il Clima ed era l’ultimo tassello mancante per poter avviare il negoziato con Consiglio e Commissione per arrivare a un’intesa definitiva sui provvedimenti del pacchetto Fit for 55. Ma l’accordo raggiunto da Socialisti & Democratici, Ppe e Renew e accettato anche dai Verdi (439 i voti a favore, 157 i contrari e 32 gli astenuti) è però decisamente al ribasso rispetto a quello che era stato in precedenza approvato in commissione Ambiente. Le industrie responsabili di gran parte delle emissioni di gas serra, dalle acciaierie ai cementifici, continuerebbero infatti a ricevere gratuitamente un volume imponente di permessi a inquinare fino al 2032, anno in cui entrerebbe in vigore il meccanismo per tassare i beni importati da Paesi con standard ambientali più permissivi.
Nel 2030, nota la ong Carbon Market Watch, verrebbero ancora distribuite gratis 313 milioni di quote ognuna delle quali corrisponde a una tonnellata di Co2. In aperta contraddizione con il principio su cui si fonda il sistema Ets, cioè “chi inquina paga“. Con la solita spiegazione, o alibi: il rischio che le imprese, se chiamate ad aprire il portafogli, delocalizzino in continenti meno attenti all’emergenza climatica. Tra 2021 e 2030, le quote regalate ammonterebbero a 4,8 miliardi, contro i 4 miliardi previsti dalla proposta iniziale della commissione Ambiente guidata da Pascal Canfin, che pure rivendica “un grande passo avanti per l’azione per il clima”. La ong belga che ha seguito da vicino l’evoluzione delle norme in materia non concorda: “Sussidiare l’inquinamento in questo modo”, scrive in un’analisi a caldo, “toglie l’incentivo economico per l’industria pesante ad adottare azioni climatiche e migliorare la propria efficienza. E toglie agli Stati il gettito delle aste delle quote, che dovrebbe essere reinvestito in ulteriori politiche per il clima”. Con il nuovo accordo i Paesi Ue dovrebbero incassare dalle vendita dei permessi circa “336 miliardi complessivi, 56 in meno rispetto a quanto previsto dalla proposta della commissione Ambiente”.
Poco ambizioso anche l’obiettivo di riduzione delle emissioni dei settori soggetti al sistema Ets: nel 2030 si arriverebbe a un taglio del 63% rispetto al 2005, contro il 67% di riduzione votato dagli eurodeputati della commissione Ambiente. Un livello che, come aveva fatto notare Climate Action Network, sarebbe stato comunque insufficiente per raggiungere l’obiettivo di limitare l’aumento delle temperature a 1,5 gradi rispetto ai livelli pre industriali come previsto dagli accordi di Parigi: il minimo indispensabile sarebbe una sforbiciata del 70%. Certo la proposta fatta passare dal Ppe l’8 giugno a valle di una pressante attività di lobbying dell’industria, e su cui si è spaccata la “maggioranza Ursula”, era peggiore – rinviava l’eliminazione delle quote gratis al 2034 – ma il compromesso è largamente insoddisfacente anche per i Verdi che pure l’hanno votato. “Questo pacchetto è “Fit for 55”, ma non è adeguato per gli 1,5 gradi, e questo dovremmo riconoscerlo tutti”, ha dichiarato non a caso in plenaria l’eurodeputato Bas Eickhout dei Verdi. “Usiamolo come trampolino di lancio per fare di più per il clima, perché dobbiamo farlo”.
Il cosiddetto “strumento di rilocalizzazione delle emissioni di carbonio” o carbon tax alla frontiera verrebbe introdotto gradualmente entro il 2032, in concomitanza appunto con l’eliminazione delle quote gratuite Ets. In base alla proposta votata a Bruxelles si applicherà anche ai prodotti chimici organici, alla plastica, all’idrogeno e all’ammoniaca, nonché alle emissioni indirette.
Quanto alla prevista creazione di un Ets ad hoc per edifici e trasporti, per l’Europarlamento dovrà valere solo per le aziende. Contrariamente a quanto proponeva la Commissione europea, per evitare che i cittadini debbano sostenere costi aggiuntivi alla pompa del carburante o in bolletta gli eurodeputati chiedono che edifici residenziali e trasporti privati non siano inclusi nel nuovo sistema prima del 2029 e dopo quella data possano esserlo solo dopo una valutazione dell’impatto della misura. Di conseguenza però il Fondo sociale per il clima, che nei piani originari avrebbe dovuto alimentarsi dai proventi del nuovo Ets, è ridimensionato a 16,4 miliardi tra 2024 e 2027 a fronte dei 23,7 previsti dall’esecutivo Ue nel periodo 2025-27, che avrebbero dovuto arrivare a 72 miliardi nel 2032.
Fatte le somme, nota Carbon Market Watch, la riforma votata il 22 giugno somiglia molto all’accordo respinto l’8: “Comporterebbe una riduzione complessiva delle emissioni al 2030 inferiore solo di 23 milioni di tonnellate” rispetto a quella prevista dal precedente compromesso rigettato da Socialisti, Verdi e Sinistra (ma anche da Conservatori e gruppo Id, che puntavano semplicemente ad affossare le norme): si tratta dell’equivalente delle emissioni di quattro acciaierie. Le destre hanno comunque votato contro: secondo la delegazione di Fratelli d’Italia, favorevole solo alla creazione del Fondo sociale, “ancora una volta il furore ideologico ha prevalso sul buon senso e sul realismo”.