di Giuseppina Mortillaro*
I datori di lavoro aventi i requisiti dimensionali dell’art. 18 st. lav. in relazione all’art. 35 st. lav., ove intendano disporre un licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, devono prima esperire una procedura di conciliazione obbligatoria.
Cos’è e come funziona la procedura
La procedura è disciplinata dall’art. 7, legge n. 604/1966, nel testo risultante a seguito della riforma operata con la legge n. 92/2012 (“legge Fornero”). Si tratta di una speciale procedura conciliativa, a carattere obbligatorio, che deve essere svolta prima di disporre un licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, ossia un licenziamento ai sensi dell’art. 3, legge n. 604/1966, di un lavoratore soggetto al regime di tutela dell’art. 18 st. lav.
Dal punto di vista del perimetro di applicazione, dunque la procedura non dovrà essere espletata:
– per i licenziamenti disciplinari;
– per i licenziamenti, per qualunque ragione intimati, disposti da datori di lavoro non aventi i requisiti dimensionali dell’art. 18 st. lav. (fino a quindici dipendenti o fino a cinque se il datore di lavoro è un’impresa agricola);
– per i licenziamenti, per qualunque ragione intimati e indipendentemente dal requisito dimensionale del datore di lavoro, riguardanti lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 in avanti, ai quali si applica la diversa normativa del contratto a tutele crescenti (art. 3, d.lgs. n. 23/2015); ai licenziamenti per superamento del periodo di comporto; ai licenziamenti collettivi.
Lo svolgimento della procedura avviene come segue: il datore di lavoro avente i requisiti dimensionali dell’art. 18 st. lav., ove abbia intenzione di licenziare per motivi oggettivi un dipendente assunto prima del 7 marzo 2015, deve trasmettere una comunicazione alla commissione di conciliazione presso l’ispettorato territoriale del lavoro del luogo dove il dipendente presta la propria attività, inviandone copia anche al lavoratore interessato, rappresentando l’intenzione di disporre il licenziamento, indicando le ragioni che hanno determinato l’intenzione di procedere al licenziamento e infine, se possibile, illustrando le misure per un’eventuale ricollocazione. Ricevuta la comunicazione, la commissione convoca le parti entro sette giorni al fine di esperire un tentativo di conciliazione.
La procedura deve essere conclusa entro venti giorni, ma è possibile chiedere una sospensione fino a quindici giorni in caso di impedimento del lavoratore. Poiché il termine di venti giorni non è qualificabile come perentorio, le parti possono chiedere un rinvio dell’incontro, ove ciò sia funzionale al raggiungimento di un accordo conciliativo.
Lo scopo della procedura e l’eventuale accordo
All’atto della comunicazione alla commissione di conciliazione, il datore di lavoro non ha ancora licenziato il lavoratore, ma ha soltanto manifestato l’intenzione di licenziare. La riunione innanzi alla commissione ha dunque proprio lo scopo di valutare eventuali alternative al licenziamento, quali, tra le più comuni, un trasferimento, una rimodulazione oraria, un mutamento delle mansioni. Nondimeno possono essere valutate alternative economiche, ad esempio una risoluzione consensuale del rapporto di lavoro con il pagamento di una somma a titolo di incentivo all’esodo; in tal caso, benché il rapporto venga a cessare per risoluzione consensuale e non per licenziamento, il lavoratore avrà comunque diritto al trattamento della NASPI, in quanto le risoluzioni consensuali nell’ambito delle procedure ai sensi dell’art. 7, legge n. 604/1966, danno comunque titolo a percepire la NASPI, perché esse sono considerate dal legislatore alla stregua di un evento di disoccupazione involontaria (art. 7, comma 7, legge n. 604/1966).
Il mancato accordo
Per quanto lo spirito della procedura sia quello di favorire l’accordo, non è detto che si addivenga a una conciliazione. In tal caso, la procedura si concluderà con un verbale negativo e il datore di lavoro – sempreché sia sempre persistente la determinazione di licenziare (il che non è affatto scontato, visto che all’avvio della procedura non consegue alcun obbligo, ma solo la facoltà, di licenziare) – potrà disporre l’annunciato licenziamento e, se il dipendente ha lavorato nelle more della procedura, il periodo intercorrente tra l’avvio della procedura e il successivo licenziamento sarà considerato come preavviso lavorato.
La violazione della procedura
La violazione da parte del datore di lavoro della procedura preventiva si traduce in un autonomo vizio del successivo licenziamento. In altre parole, la sola violazione della procedura dà luogo, secondo quanto previsto dall’art. 18, comma 6, st. lav., a un’indennità risarcitoria onnicomprensiva da sei a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, fermo che, se la violazione della procedura concorre con altri vizi più gravi (ad esempio, quando manchi la ragione economica addotta), il lavoratore potrà chiedere al giudice la tutela connessa al vizio più radicale.
Per far valere la violazione della procedura – come ogni altro vizio del licenziamento – occorre però che il licenziamento sia stato impugnato nei termini previsti a pena di decadenza dalla legge (art. 6, legge n. 604/1966), facendo attenzione a non sovrapporre la comunicazione di avvio della procedura di conciliazione preventiva dell’art. 7, legge n. 604/1966, con il licenziamento comunicato all’esito della stessa. È tale ultimo atto che va impugnato ed è solo l’impugnazione di esso che impedisce la decadenza (si richiama in tal senso la sentenza della Corte di Cassazione, sezione lavoro, n. 21676/2018). Per un caso, recentissimo, in cui tuttavia la Corte di Cassazione ha ritenuto valida anche l’impugnazione della lettera di avvio della procedura, si rimanda a Cass., sez. lav., n. 9639/2022.
*avvocata giuslavorista e professoressa a contratto nell’Università di Pisa