Il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia, la nuova Pista 500 della Pinacoteca Agnelli al Lingotto e la mostra personale di Anicka Yi all’Hangar Bicocca inducono riflessioni relative a un tema comune: il lavoro. Nello specifico, quello femminile. “Storia della Notte e Destino delle Comete”, l’installazione site-specific di Gian Maria Tosatti alla Biennale, analizza il tema della sostenibilità. Due grandi ambienti industriali dismessi generano un impianto scenografico atto a raccontare ascesa e declino del sogno industriale italiano.
Macchinari obsoleti, senza alcuna presenza umana, rappresentano la “Storia della Notte”. Le ambientazioni evocano La Dismissione, romanzo di Ermanno Rea del 2002, in cui un tecnico dell’Ilva, incaricato di smontare il suo reparto in seguito alla vendita dell’azienda a una società cinese, decide di eseguire il compito assegnatoli con assoluto rigore. Proseguendo, si giunge alla seconda parte, il “Destino delle Comete”, ispirata a una frase di Pasolini, “Darei l’intera Montedison per una lucciola“, pubblicata in un articolo del 1975 intitolato “Il vuoto del potere”. Attraverso la metafora della scomparsa delle lucciole, l’autore tende a enfatizzare i limiti di ciò che considerava il nuovo fascismo, ovvero il neocapitalismo. Nel 1975 la Montedison impiegava 150.555 dipendenti. Barattare 150.555 posti di lavoro per un insetto, per quanto romantico possa suonare, non sembra esattamente un concetto di “sinistra”.
La Pista 500 della Pinacoteca Agnelli, invece, presenta una selezione d’installazioni site-specific tra cui spicca una scultura in bronzo realizzata dall’artista austriaca VALIE EXPORT. Die Doppelgängerin rappresenta due enormi forbici intrecciate tra loro. Le forbici, in passato, erano associate ad attività professionali prettamente femminili come la confezione di abiti e questo le ricollega al Padiglione Italia alla Biennale, in cui una distesa di macchine da cucire vuote ci ricorda la disoccupazione femminile imperante. In un periodo in cui i media trattano costantemente temi come la parità di genere, la mancanza di lavoro genera un cortocircuito definito “helplessness”, un’impotenza appresa (o acquisita) da un soggetto dopo aver sopportato ripetuti stimoli contrari al di fuori del suo controllo. Ma come raggiungere quella che i media definiscono una “parità” effettiva senza la possibilità di una reale indipendenza economica? Non è chiaro. Ciò che è chiaro e computabile sono gli effetti della pandemia sul lavoro: su 101.000 nuovi disoccupati, 99.000 sono donne (fonte Istat). Un disastro annunciato ma ancora lontano da quello che si potrebbe verificare se l’Italia, come previsto, entrerà in recessione. La mostra di Anicka Yi all’Hangar Bicocca ci ricorda invece il sudore e il lavoro sottopagato delle donne cinesi. Se, in un primo tempo, la delocalizzazione poteva essere una soluzione per abbassare i costi del lavoro per le imprese italiane, in seguito agli sconvolgimenti geopolitici degli ultimi anni si è rivelata essere un grave errore. Puntare verso l’automazione e il rinnovamento degli impianti produttivi sarebbe stato forse più dispendioso, ma sicuramente più lungimirante.
La questione della transizione ecologica è simile alle questioni relative al lavoro femminile: invece d’investire su fonti completamente rinnovabili – la luce solare, il vento, il ciclo dell’acqua, le maree, le onde e il calore geotermico – si è continuato a utilizzare combustibili fossili, fonti non o solo parzialmente rinnovabili e ad appaltare la realizzazione delle nuove infrastrutture a società di dubbia provenienza e gestione. Oggi, l’aumento dei costi dell’energia costringerà industriali e governanti ad accelerare questo processo di rinnovamento o a tagliare altri posti di lavoro? Vedremo. Nel frattempo, abbondano certificazioni aziendali per la sostenibilità ambientale e per il lavoro femminile, come la certificazione di parità di genere UNI/PdR 125:2022. Si spera che non finisca come nel caso del “greenwashing”, quelle strategie comunicative aziendali atte a diffondere un’immagine positiva ingannevole.
In conclusione, qualora durante l’estate doveste trovarvi nelle assolate città di Venezia, Torino o Milano, visitare una di queste tre mostre potrebbe essere utile per fermarsi a riflettere sul futuro del Paese. Per riconoscere le sue ipocrisie e idiosincrasie senza diventare vittime del dilagante indebolimento del senso critico individuale. Per contrastare un uso volgare e strumentale della cultura come della storia, in cui ogni gruppo reinterpreta e riscrivere il passato a piacimento, secondo le attuali necessità, “buttando via il bambino (i progressi scientifici, egalitari e illuministici) con l’acqua sporca (degenerazioni e deformazioni coercitive e totalitarie)”. È sufficiente dare un’occhiata ai main sponsor del Padiglione Italia alla Biennale e alla provenienza geografica dei fondi d’investimento che hanno acquistato società come Valentino per farsi una risata o farsi scendere una lacrima. A seconda dei punti di vista.