Attualità

Il fenomeno del corsivo spopola sul web: abbiamo sentito cosa ne pensa un prof. di Sociologia

Continua a far parlare il fenomeno che si sta sviluppando sui social di "parlare in corsivo", anzi in "cörsivœ". Ma da dove nasce e come può essere interpretato in relazione alla società attuale? Lo abbiamo chiesto a Luca Salmieri, Professore associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l'Università La Sapienza di Roma

di Paolo Aruffo

“Il mondo delle relazioni sui social network, on line, a distanza, è ancora un mondo pienamente umano. Prima di tutto perché la tecnologia è umana. Anzi, la tecnologia è ciò che meglio ci distingue dagli altri animali, i quali hanno sì loro tecnologie, ma non evolutive. In secondo luogo, molte relazioni umane sono oggi possibili proprio grazie alla rete, mentre prima non erano neanche immaginabili. Piuttosto la questione è cosa si perde e cosa si guadagna con la relazionalità online rispetto a quella faccia a faccia: siamo certamente più sedentari, meno “assembrati” e anche meno responsabili. Credo però che molti aspetti che prima davamo per scontati e consideravamo automatici – ad esempio, doversi spostare da una città all’altra per una riunione di lavoro o trovare sempre, ad una certa ora, gli amici al bar – siano oggi frutto di scelte. E finché ci è data facoltà di scegliere, non solo recuperiamo responsabilità, ma significa che tutto è ancora umano, molto umano”, la riflessione di Luca Salmieri, Professore associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università La Sapienza di Roma. Continua a far parlare il fenomeno che si sta sviluppando sui social di “parlare in corsivo”, anzi in “cörsivœ”. Ma da dove nasce e come può essere interpretato in relazione alla società attuale? Lo abbiamo chiesto a Luca Salmieri, Professore associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università La Sapienza di Roma.

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Da dove nasce il fenomeno della lettura “in corsivo”?
Come per quasi tutti i fenomeni sociali e linguistici che si sviluppano e si diffondono repentinamente grazie alla rete e nella rete, anche per la lettura con voce “in corsivo” è quasi impossibile rintracciare gli inizi. Prima di tutto, perché possono esserci stati tanti inizi, quasi in contemporanea, da parte di persone diverse, in cricche e in ambienti sociali che nulla hanno in comune tra loro. In secondo luogo, perché le lingue, gli idiomi, i dialetti e le cadenze disponibili nel mondo sono un numero impressionante ed è impossibile seguire questo flusso infinito fatto di migliaia di modi di parlare. Infine, è assai difficile ricostruire se questo fenomeno, con mille sfaccettature si sia generato come un tentativo di dare una voce alla scrittura in corsivo oppure come uno sforzo di assegnare un tipo specifico di scrittura ad un modo di parlare molto caratterizzato. Insomma, è il classico interrogativo: viene prima l’uovo o la gallina? “Leggo così perché è scritto in corsivo, oppure scrivo in corsivo una frase su Twitter per segnalare che va letta in modo strano?” Possiamo però dare una risposta abbastanza certa ad un’altra domanda. Quando e come è nato il corsivo nella scrittura? Quasi appena nata, la stampa a caratteri mobili sente la necessità di venire incontro alla scrittura amanuense. E fu una necessità tutta italiana (infatti all’estero il corsivo viene chiamato “italico”): alla fine del XV secolo un tipografo della dotta Bologna, Francesco Griffo, produsse un carattere da stampa ispirandosi alla scrittura di Poggio Bracciolini. In seguito, la tipografia veneziana di Aldo Manuzio riuscì a commercializzare l’italico che a quanto pare fece la sua prima comparsa in una stampa del 1500 delle Epistole di Caterina da Siena e in un’edizione del 1501 delle Bucoliche di Virgilio. Secondo il compianto Umberto Eco, il corsivo ha poi nei secoli contribuito alla democratizzazione della cultura, poiché le edizioni che adottavano tale carattere erano più economiche. Infine, con le pubblicazioni di massa, poi con l’avvento con l’avvento dei PC, il corsivo ha ulteriormente specializzato le sue funzioni: per esprimere i nomi propri e i titoli di libri, quotidiani, film, opere e oggetti culturali; per identificare termini stranieri, per citare i discorsi diretti, ma anche per enfatizzare alcune parole o frasi all’interno di un discorso. Sul corsivo letto con una certa intonazione e con pronuncia diversificata di vocali e consonanti non possiamo azzardare una spiegazione molto generale. È sicuramente sintomatico della difficoltà della scrittura e della cultura alfabetica ai tempi del web, strette come sono in mezzo a strumenti comunicativi oggi più potenti: le immagini in primis e l’audio a corredo.

Perché si sta diffondendo in questo modo così veloce e adesso, che spiegazione si è dato?
Per il momento sarei abbastanza cauto sul fatto che la lettura con voce “in corsivo” si stia diffondendo velocemente: mi pare che per il momento la cosa sia abbastanza limitata ad una dimensione ironica che chiama in causa contesti molto specifici, tra l’altro isolati persino all’interno del vasto mondo dei social. Certo, gli altri media rincorrono questo tipo di pratica che è emersa principalmente da Tik Tok, non a caso un social network che privilegia video e audio a scapito di scrittura e lettura. In questi giorni sembra la moda del momento, ma così come è velocemente sbocciata, potrebbe benissimo appassirsi in modo altrettanto veloce.

Questo trend che valore ha, se ce l’ha, da un punto di vista sociologico? È un bene, un male?
Prima di avventurarsi in un qualsiasi giudizio di valore, bisognerebbe condurre uno studio sistematico, con fasi di osservazione e analisi del fenomeno abbastanza estese nel tempo. Studi del genere, almeno per il momento e per quanto di mia conoscenza, non ce ne sono. Del resto, il fenomeno è appena emerso. Esiste però una vasta mole di ricerche su un fenomeno molto più ampio all’interno del quale è probabile che si inscriva la lettura con voce “in corsivo”: è la marginalità che scrittura e lettura patiscono nei confronti della neo-cultura audio-visiva. Le letture con voce “in corsivo” rappresentano l’inesorabile dominio del mondo audio-visivo che si impossessa della scrittura e delle sue regole, per meglio adattarle alla sete di personalizzazione, identità e protagonismo di cui oggi soffriamo un po’ tutti. Normalmente nella scrittura la differenza tra il carattere normale e il corsivo, così come altre distinzioni grafiche, non possono essere rese e riportate con una performance audio-visiva. Il grafismo che distingue il corsivo non comporta alcuna particolare variazione del suono. Da questo punto di vista, il corsivo segnala semplicemente al lettore una decodifica cognitiva immediata che non necessita di passare per una alterazione delle regole di pronuncia nella lettura. Invece, leggere in un certo modo il corsivo e farlo in una performance comunicativa – tutte le nostre relazioni sociali lo sono – significa movimentare ciò che altrimenti è statico. Si tratta di interpretare e agire la scrittura all’interno di un gioco linguistico. Un po’ come leggere l’inglese adottando volutamente un accento smaccatamente italiano. Si tratta di un’enfasi connotativa non necessaria, artificiale e quindi inevitabilmente spiazzante, ma che produce il suo effetto ironico solo se chi ascolta può al contempo “vedere” con i propri occhi ciò che il lettore sta leggendo ad alta voce.

Più in generale, con i social sembra che non ci sia più il senso dell’imbarazzo. È come se davanti alla telecamera possa essere tutto possibile, ma poi quei video girano e rigirano fino a far diventare virali contenuti di dubbio gusto. Perché?
Il gusto è sempre frutto di rapporti di potere: ciò che è di “buon gusto” e ciò che non lo è, ciò che è culturalmente legittimo e ciò che lo è meno, è una partita interminabile a cui giocano diversi giocatori. È quindi molto complesso stabilire dove finisca il bon ton – toh! Ecco il corsivo – e dove ha inizio il cattivo gusto. Ad ogni modo, personalmente, non trovo nulla di particolarmente imbarazzante nel dare un taglio fonico speciale alla lettura del corsivo, anche perché purtroppo le occasioni pubbliche, formali e ufficiali di lettura ad alta voce sono sempre più rare. È ormai soltanto nel mondo della scuola o nelle rare occasioni in cui abbiamo un pubblico fisicamente radunato davanti a noi che ci capita di leggere ad alta voce. Tutto il resto è dominato dai social e da una comunicazione che non è né pubblica, né privata, aperta alla moltitudine e al tempo stesso estremamente personale. Per quanto potente, non credo che il mondo dei social possa riuscire a scardinare la lettura codificata: Ferdinand de Saussure, il primo grande linguista moderno, in un’epoca storica in cui i social erano i caffè agli angoli delle strade, sosteneva che da un lato c’è la parole, la versione quotidiana, parlata, comune della lingua le cui uniche regole erano date dalla capacità di farsi comprendere e dall’altro c’è la langue ovvero la grammatica e la sintassi ufficiali, le regole cristallizzate e codificate nei testi. Pur influenzandosi a vicenda, la seconda ha una scorza abbastanza dura, forte della protezione da parte della cultura alta e da parte della necessità di tramandare un linguaggio comune, meglio se su base nazionale, alle generazioni successive. Piuttosto, il vero imbarazzo riguarda lo stato davvero minimo e degradato delle competenze di base alfanumeriche della popolazione italiana: secondo l’indagine internazionale sulle competenze degli adulti dell’OCSE, circa tre quarti dei nostri concittadini non è in grado di leggere e comprendere il significato di un testo scritto di media complessità, né è capace di interpretare con correttezza la portata reale di una serie di percentuali. La colpa non è né dei social, né della scuola: il fatto è che tutto ciò che apprendiamo – la lettura, la scrittura, il calcolo, la logica matematica – lo dimentichiamo velocemente se non lo alleniamo con stimoli quotidiani. Insomma, se ci fidiamo solo de la parole, prima o poi avremo problemi seri a capire la langue. Questo è un problema molto diffuso nel nostro Paese dove, rispetto al resto d’Europa, non solo abbiamo raggiunto la scolarizzazione di massa molto tardi, ma ancora oggi adulti, giovani e bambini leggono molto poco, frequentano altrettanto poco i musei, le biblioteche e i cinema, si informano poco o distrattamente e alimentano poche curiosità culturali.

Allo stesso tempo c’è il pericolo di cadere nella demonizzazione dei social, perdendo dunque il contatto con la realtà?
Lo strumento tecnico non è mai il principale responsabile. Il vero responsabile è lo scopo che si associa allo strumento: questo vale dalla clava fino allo smartphone. Parimenti demonizzare i social sarebbe un controsenso storico. Questo vale anche per la curiosa idea di leggere il corsivo in modo diverso rispetto a ciò che corsivo non è: se chi lo fa e chi ascolta sono coscienti della connotazione particolare associata a questa pratica, ben vengano i social. Il problema sorge se qualcuno comincia a credere che il corsivo debba realmente leggersi diversamente: potrebbe succedere presto e sarebbe un caso lampante di confusione tra parole e langue. Ad ogni modo non sarebbe certo colpa dei social.

La società di oggi è molto online, la pandemia ha dato una forte spinta in questo senso. Si rischia di perdere i rapporti umani o essi sono una prerogativa imprescindibile dell’uomo?
Il mondo delle relazioni sui social network, on line, a distanza, mediate dalla rete e dagli schermi è ancora un mondo pienamente umano. Non è affatto meno umano o dis-umano. Prima di tutto perché la tecnologia è umana. Anzi, la tecnologia è ciò che meglio ci distingue dagli altri animali, i quali hanno sì loro tecnologie, ma non evolutive. In secondo luogo, molte relazioni umane sono oggi possibili proprio grazie alla rete, mentre prima non erano neanche immaginabili. Piuttosto la questione è cosa si perde e cosa si guadagna con la relazionalità online rispetto a quella faccia a faccia: siamo certamente più sedentari, meno “assembrati” e anche meno responsabili. Credo però che molti aspetti che prima davamo per scontati e consideravamo automatici – ad esempio, doversi spostare da una città all’altra per una riunione di lavoro o trovare sempre, ad una certa ora, gli amici al bar – siano oggi frutto di scelte. E finché ci è data facoltà di scegliere, non solo recuperiamo responsabilità, ma significa che tutto è ancora umano, molto umano.

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