Qualche giorno fa è stata resa nota su ilfattoquotidiano.it la notizia che uno studioso mantovano, il professore e accademico Virgiliano Rodolfo Signorini, avrebbe scoperto la firma di Dante Alighieri su una pergamena del 1295. Fortuitamente scoperto all’interno di un’edizione del 1906 della Divina Commedia, il documento oltre a riportare in calce la firma di Dante Alighieri (Ego Dantes Allaghery laudavi et me subschripsi, ossia io Dante Alighieri approvo e sottoscrivo), riporta anche quelle di ser Brunetto Latini (Ego ser Burnectus Latini notarius laudavi atque schripsi), Guido Cavalcanti (Ego Guido de Chavalchantibus me subscribo) e Dino Compagni (Ego Dinus Chompagni, minius doctorum, me subscripsi). Tutti e quattro i letterati, considerati fra i più importanti e autorevoli del XIII secolo, con i testi loro attribuiti approvano e sottoscrivono un documento nel quale dibattono sul corretto uso del “ma” come congiunzione nella lingua volgare. Ovviamente di fronte a una simile “scoperta” occorrono dosi massicce di «cautela e prudenza», come lo stesso Signorini ha dichiarato. Tuttavia nella comunità scientifica dei dantisti c’è già chi obietta. Claudia Di Fonzo, studiosa abruzzese, laureata a Firenze cum laude, filologa dantesca docente di Diritto e Letteratura all’Università di Trento, non è d’accordo che si tratti dell’autografo di Dante. Anzi, per lei non è neanche probabile. “Sebbene dal punto di vista paleografico ci sarebbe spazio per credere che si tratti della firma di Dante Alighieri, in quanto Bruni nella sua descrizione della firma dell’Alighieri afferma che la grafia era ‘magra, lunga e molto corretta’ – afferma la studiosa -, dal punto di vista del contenuto e dell’oggetto in questione pare tutto improbabile, anzi direi quasi impossibile che si tratti di un documento risalente all’epoca a cui lo si vuole attribuire. Una questione di questo tipo potrebbe essere solo oggetto di goliardia, ma non certo di un documento notarile per il quale si sottoscrive, si approva l’uso addirittura di una particella, di una congiunzione, il ‘ma’, che nello stadio di fondazione della lingua italiana aveva veramente una parte minore. Ma lasciando perdere queste considerazioni, è proprio l’oggetto stesso del documento che non è consono a una sede notarile. Ecco dunque che discussioni di questo tipo sarebbero state certamente rimandate ai trattati di retorica o di linguistica. A questo stadio, l’unico trattato di lingua e filosofia del linguaggio è quello scritto da Dante stesso, il De vulgari eloquentia, in cui le questioni sono di ben più ampio respiro. Per tutto questo – conclude la professoressa Di Fonzo -, bisogna credere che questa imitazione non sia né un’operazione di goliardia, né un documento sottoscritto seriamente, bensì il divertissement dei nostri contemporanei, o di un falsario del primo Novecento che ha voluto prendersi gioco di certo tipo di filologia, proprio all’indomani della nascita della filologia in Italia, che appare intorno al 1871/1873, diventando poi una scienza, talvolta pedante al punto da poter suscitare, come del resto anche la linguistica, il gioco e la reazione dei dotti che si son voluti divertire”.